Verso il referendum/4. Filippo Pizzolato: «Nella riforma un “bicameralismo” senz’anima»
Le ragioni del no al testo Boschi spiegate da Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di diritto pubblico alla Bicocca e di Dottrina dello Stato alla Cattolica
Le ragioni del no al testo Boschi spiegate da Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di diritto pubblico alla Bicocca e di Dottrina dello Stato alla Cattolica
Quale è lo stato di salute della nostra Costituzione? Porta ancora bene gli anni che ha o le occorre un restyling?
La Costituzione non gode di buona salute, perché i cittadini non l’hanno fatta propria, in ciò “aiutati” dalla perdurante latitanza del sistema pubblico dell’istruzione nel trasmetterne i significati e i valori di riferimento. Capita così che della Costituzione si approprino le forze politiche che trasformano in problemi della Costituzione stessa ciò che è invece imputabile a limite, incapacità e talora responsabilità dolosa della classe politica stessa. I grandi problemi con cui ci confrontiamo (la corruzione, la criminalità organizzata, la speculazione finanziaria, …) richiederebbero una seria e integrale attuazione della Costituzione vigente e/o anche l’avvio di una coraggiosa riflessione sul costituzionalismo europeo. La riforma non mette a fuoco le autentiche emergenze del Paese e rischia di alimentare l’eterna tentazione di auto-assoluzione della classe politica.
Obiettivo della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto: occorre davvero? Cosa accadrà all’iter legislativo? Le nostre leggi saranno meno equilibrate?
Anzi tutto, credo che l’enfasi sul bicameralismo perfetto sia davvero eccessiva, quasi che da questa scelta siano dipese le cause dell’inefficienza politica del nostro Paese. Un’analisi obiettiva della produzione legislativa vale a smentire decisamente questo luogo comune. Il problema del bicameralismo dovrebbe essere allora impostato in termini di ridotta capacità di un Parlamento siffatto a dare espressione politica a un popolo sempre meno “rappresentabile” per il tramite della mediazione esclusiva dei partiti politici. Ci si dovrebbe dunque porre nella prospettiva di arricchire la capacità del Parlamento di rendere presente un popolo pluralisticamente articolato e complesso. A me pare che l’ottica dell’attuale riforma non sia all’altezza di questa posta in gioco. Essa si muove su un piano banalizzante di semplificazione e di riduzione dei costi che non rende giustizia all’importanza e alla delicatezza dell’istituto della rappresentanza politica. Non stupisce che ne esca una soluzione pasticciata, che ammicca a un assetto monocamerale, ma lo maschera con un Senato delle autonomie, cui non corrisponde però alcuna sostanza di genuino investimento nelle autonomie territoriali medesime. Si passerebbe così da un bicameralismo perfetto, di riflessione, sicuramente migliorabile ma sensato, a un bicameralismo senz’anima, privo di una coerente immagine di popolo che lo sostenga e giustifichi.
Il Senato “ridotto” farà risparmiare lo Stato e dovrebbe fungere da raccordo tra Stato, Regioni e Comuni. Potrà proporre leggi ed emendamenti ma la Camera non avrà l’obbligo di prendere in considerazioni i suoi rilievi. Di fatto sarà un organo “svuotato” per alcuni aspetti ma per alcuni tipi di legge dovrà votare paritariamente insieme alla Camera. Funzionerà meglio? In che modo “raccorderà” Stato, Regioni e Comuni? Con quali vantaggi?
Io credo che il Senato prefigurato dalla riforma non avrà più l’autorevolezza politica che discende da un meccanismo di legittimazione diretta popolare, senza riuscire a conquistare la credibilità che potrebbe venirgli da una genuina rappresentatività delle autonomie territoriali. Un Senato non più direttamente elettivo e non (ancora?) espressione genuina dei territori sarà un organo debole, di legittimazione incerta e di precaria autorevolezza politica.
A proposito del Titolo V: molte materie passerebbero alla competenza esclusiva dello Stato ma su alcune la definizione dei ruoli non è nettissima. Penso alla sanità: le Regioni hanno in capo l’organizzazione dei servizi, uno dei punti dove maggiormente è tangibile, ad esempio, la diseguaglianza tra nord e sud nell’accesso ai servizi. Come valutiamo la Riforma dal punto di vista dell’autonomia delle Regioni?
Dal punto di vista delle autonomie delle Regioni, la riforma mi pare decisamente penalizzante. Molte competenze legislative sono trasferite dalle Regioni allo Stato. Per alcune si tratta di una manutenzione sensata, per altre no. L’accentramento che si produce in tema di politiche sociali, ad esempio, non ha alcuna giustificazione, perché il grave squilibrio nella quantità e qualità dei servizi nel nostro territorio nazionale nasce proprio dalla latitanza dello Stato dall’esercizio di competenze già ora disponibili (penso ai livelli essenziali di assistenza sociale, ad esempio), non certo dall’intralcio della legislazione regionale. L’introduzione di una indeterminata e onnivora clausola di interesse nazionale rende inoltre precaria l’autonomia residua delle Regioni, rese subalterne all’indirizzo politico del governo nazionale. Si racconta che il federalismo è fallito e che ora è il tempo della semplificazione. Ricordo però che di fronte all’oscillazione tra autonomismo e centralismo, la nostra Costituzione prende posizione, con l’art. 5, promuovendo le autonomie, in quanto veicolo di partecipazione. Se le Regioni non hanno bene svolto questo ruolo, occorre preoccuparsi di riavvicinarle ai cittadini, non svuotarne le competenze.
Il referendum abrogativo prevederà un quorum ridotto mentre per proporre leggi di iniziativa popolare le firme necessarie saranno triplicate, da 50 a 150mila. Da una parte sarà più facile dire “no”, ma dall’altra non si rischia di scoraggiare l’interesse per la politica?
Su questo punto della riforma non ho particolari ragioni di dissenso. Credo però che la partecipazione più efficace, da parte dei cittadini, sia quella organizzata, per il tramite delle formazioni sociali e delle istituzioni territoriali, anziché mediante strumenti individualizzanti, a struttura semplificata (binaria), come i referendum. In questa riforma non vedo interesse per una partecipazione sociale e istituzionale più efficace. Tutt’altro. Io ho l’impressione che questa riforma pensi ai cittadini solo in quanto elettori, nell’ottica dichiarata di una democrazia schumpeteriana o governante; mentre trascuri la capacità di autogoverno dei cittadini singoli e associati. Sussidiarietà e federalismo sono usciti di scena. Osservo, con qualche perplessità, che anche le associazioni cattoliche tacciono sul punto. Si sono scoperte improvvisamente schumpeteriane? Che fine ha fatto l’autonomismo sturziano? E la democrazia fondata sul lavoro?
Qualcuno, a proposito dello scenario prospettato da questa riforma, parla di “strapotere” del governo (penso al commissariamento degli enti locali e alla cosiddetta “clausola di supremazia” rispetto alle materie di competenza regionale. Potrebbe essere così?
Io vedo sottostante a questa riforma non un rischio dittatura ma certamente un’idea di democrazia diversa da quella cui si ispirano i principi fondamentali della Costituzione. Nella nostra Costituzione, la democrazia, fondata sul lavoro, si regge sul contributo feriale dei cittadini alla costruzione della convivenza, tramite una partecipazione significativamente declinata come sociale, economica e politica. Di questa idea costituzionale di democrazia, sussidiarietà e autonomie sono elementi portanti e non accessori di cui ci si possa disinvoltamente impoverire. La riforma si muove invece verso un’idea di democrazia di investitura, in cui il popolo è ridotto a corpo elettorale e la partecipazione lascia spazio alla delega a una maggioranza governante. Io ho forti dubbi che un popolo che non si abitua a partecipare, giorno per giorno, riesca poi a scegliere.
Soppressione del Cnel: cosa ne pensa?
Il Cnel è mancato nel suo compito di dare espressione politica alle formazioni sociali. Va bene dunque riformarlo. Ma nella riforma approvata non si vede alcuna riflessione sulle cause di questo fallimento (e se fosse dovuto all’invadenza partitica?) e sulla predisposizione di canali alternativi e più efficaci di partecipazione delle componenti organizzate della società. Si sopprime e basta, solleticando il consenso dell’antipolitica.
Riassumendo: quali sono i lati positivi della riforma Boschi? Quali invece le criticità e i rischi? Riusciamo a dare un voto?
In mezzo a una riforma così ampia possono esserci anche manutenzioni buone. Ma la direzione di fondo è, a mio parere, sbagliata e ambigua. Le criticità non sono marginali, ma sostanziali. Un Senato pseudo-federale nel contesto di una riforma che riaccentra le competenze in capo allo Stato è un errore o un’incertezza di fondo. Rivelativa di questa ambiguità di fondo è poi un’altra circostanza: si nega che la riforma tocchi la forma di Governo, ma poi se ne vanta l’effetto stabilizzante in tema di governabilità. Io credo che la riforma, facendo sistema con la legge elettorale, veicoli un’interpretazione della democrazia, ridotta a investitura di élites governanti (o di “capi”, come significativamente li chiama l’Italicum), non in armonia con i principi fondamentali della Costituzione, cui pure si continua a tributare un omaggio formale. E poi c’è il tema, a mio avviso dirimente, del carattere divisivo di questo processo riformatore. Io non posso accettare da nessuna parte politica, nemmeno dalla mia, che una minoranza, diventata “avventurosamente” maggioranza, grazie ai “trucchetti” abusivi del “Porcellum”, modifichi da sola una parte così consistente della Costituzione. La Costituzione dev’essere preservata dalle tentazioni di appropriazione abusiva da parte del potere, da qualunque parte provengano.
Perché un elettore dovrebbe votare no?
Per riaffermare, non retoricamente, ma sinceramente, che la Costituzione è la casa comune, di cui nessuna parte può pensare di appropriarsi. E poi per riaffermare la serietà della Costituzione, contro una diffusa e non innocente tendenza alla sua “dissacrazione” che vorrebbe indurci a relativizzare tutti gli evidenti difetti della riforma e perfino la sua portata complessiva, perché in fondo, ciò che conta è cambiare. Come cittadini, rispetto alle forze politiche, dobbiamo diventare molto più esigenti e critici, perché la Costituzione non diventi strumento del potere ma resti garanzia di una convivenza e di una partecipazione plurali.
21 ottobre 2016