Rifugiati, una sartoria nel centro Sprar di via Tiburtina
Si chiama Karalò il progetto realizzato da quattro richiedenti asilo. Vestiti e borse da materiali da riciclo, donato da altri sarti o tappezzieri
Si chiama Karalò il progetto realizzato da quattro richiedenti asilo. Vestiti e borse prodotti con materiali da riciclo, donato da altri sarti o tappezzieri
“Karalò” è una parola mandinga che significa semplicemente “sarto”. Ma per quattro ragazzi del Mali e del Gambia, arrivati in Italia dopo un lungo viaggio, vuol dire molto di più: emanciparsi da una vita difficile attraverso il lavoro e provare ad essere finalmente indipendenti. Karalò è il nome scelto per un progetto di inserimento lavoratori nato all’interno di un progetto Sprar (Sistema per richiedenti asilo e rifugiati) a Roma, gestito dalla cooperativa Eta Beta all’interno di un centro di accoglienza sulla via Tiburtina, che attualmente ospita 92 persone. Qui si sono incontrati quattro ragazzi, tutti sui 30 anni e richiedenti asilo, tutti con la passione per la sartoria, che hanno deciso di tradurre in una vera e propria attività.
I prodotti sono realizzati con materiale da riciclo. Vestiti, magliette, borse e portafogli, creati mettendo insieme scampoli di stoffa per lo più donati da altre sartorie, o da tappezzieri della zona. Anche le macchine per cucire sono arrivate grazie al passaparola e a una gara di solidarietà tra amici e conoscenti. «L’idea è nata quando uno dei nostri ospiti ha iniziato a frequentare un corso di cucito presso l’associazione Casale Podere Rosa – racconta Daniele Fabbrizi, presidente di Eta Beta -. Ascoltando anche gli altri ragazzi ci siamo resi conto che alcuni di loro avevano già fatto i sarti nel loro Paese d’origine, e abbiamo pensato che fosse opportuno valorizzare le loro capacità mettendoli insieme in un progetto di sartoria. E così abbiamo iniziato il laboratorio all’interno del centro». I prodotti vengono realizzati con l’aiuto degli operatori del centro e poi venduti, attraverso un’offerta libera, nei mercatini all’interno dei centri sociali della Capitale o durante eventi particolari. «Cerchiamo di affiancarli anche nella creazione dei modelli – spiega Elisa, operatrice di Eta Beta -. Mettiamo insieme la loro creatività e il loro gusto tradizionale con l’idea di quello che una persona occidentale può indossare: quello che viene fuori è uno stile fusion molto interessante. Quello che ci interessa, però, è investire sulla professionalità dei nostri ragazzi, perché una volta usciti dal centro possano essere autonomi e magari anche mettersi in proprio». I proventi delle vendite dei vestiti vengono reinvestiti nell’attività, per comprare altre stoffe o alcuni materiali più preziosi. Una parte, invece, viene lasciata ai ragazzi perché possano mettere da parte qualcosa, e magari comprarsi gli strumenti del mestiere. «La cooperativa sovvenziona il progetto con una quota mensile che viene spesa per comprare le cose più costose come le clip o le zip – aggiunge Fabbrizi -. Il resto riusciamo a recuperarlo dalle donazioni dei privati».
Una start up per richiedenti asilo. Per ora il progetto è ancora nella fase embrionale. Nell’idea della cooperativa il laboratorio dovrebbe rimanere come attività fissa all’interno del centro, così che altri rifugiati e richiedenti asilo possano usufruirne. Una sorta di start up per avviare al lavoro il maggior numero di persone. «Vorremmo che Karalò rimanesse all’interno dello Sprar per riuscire a inserire mano mano altre persone – aggiunge Fabbrizi –. Ognuno poi potrà modificare il progetto a seconda delle sue esigenze o del suo gusto personale. Ma l’obiettivo è dare alle persone la possibilità di imparare un mestiere, così che una volta usciti dall’accoglienza possano spendersi questa professionalità. Non vogliamo che rimanga un’iniziativa fine a se stessa ma deve essere innanzitutto un’attività di formazione, perché solo così possiamo assicurare un futuro a questi ragazzi».
15 maggio 2015