Migranti, Becciu: «I muri uccidono la speranza»

A Santa Maria in Trastevere la veglia ecumenica “Morire di speranza”. Impagliazzo, Sant’Egidio: «Insieme per lenire il dolore»

A Santa Maria in Trastevere la veglia ecumenica “Morire di speranza”. Impagliazzo, Sant’Egidio: «Insieme per lenire il dolore» 

Hakim e Habibullah, giovani afgani morti di freddo al confine tra la Turchia e la Bulgaria, il 23 marzo 2016. Youssef, siriano, ucciso da un proiettile a 18 anni, mentre stava cercando di attraversare quella stessa frontiera, il 15 ottobre 2015. Khadra e Naima, giovani somali morti durante un naufragio nel Mediterraneo, il 25 maggio 2016. Abdullah, strappato alla vita a soli tre mesi, annegato nelle acque dell’Egeo, il 19 marzo 2016, assieme ad altri 11 bambini siriani.

veglia_profughi_3Per ciascuno di loro è stata accesa una candela durante la veglia ecumenica di preghiera “Morire di speranza”, dedicata a quanti hanno perso la vita nei viaggi verso l’Europa. Un momento per ricordare morti e dispersi. Se ne stimano 30.088 in tutto. Di tanti non si conosce neppure il nome. Di altri, invece, giovedì 23 giugno, è riaffiorato il ricordo nella basilica di Santa Maria in Trastevere gremita di fedeli. Sono scomparsi nel tentativo di raggiungere l’Europa, ma nella memoria dei loro compagni di viaggio hanno lasciato un’impronta indelebile.

All’iniziativa, promossa in occasione della Giornata mondiale del rifugiato da Comunità di Sant’Egidio, Acli, Centro Astalli, Caritas italiana, Fondazione Migrantes, Federazione Chiese evangeliche e Associazione Papa Giovanni XIII, hanno partecipato infatti anche parenti o amici delle vittime. C’era Minerva, giovane siriana, che ha lasciato Damasco a causa della guerra, approdando in Grecia a bordo di un gommone. Oggi stringe i suoi due figli e suo marito che l’hanno seguita. In chiesa con loro c’era pure Ahmed, ragazzo eritreo sopravvissuto a un naufragio nel Mediterraneo nel 2012. Adesso vuole ricordare e pregare per chi, invece, non è riuscito a realizzare il sogno di un futuro migliore in un Paese europeo.

veglia_profughiC’erano anche alcuni dei profughi che Papa Francesco ha portato con sé da Lesbo. «È una preghiera per persone di religioni differenti accomunate dallo stesso tragico destino, quindi abbiamo invitato rappresentanti di altre confessioni – ha spiegato il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo -. Il dolore ci unisce e per lenirlo dobbiamo pregare insieme». Così, attorno all’altare, si sono riuniti con il sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa Sede, monsignor Giovanni Angelo Becciu, che ha presieduto la cerimonia, alcune guide spirituali valdesi, anglicane, ortodosse, evangeliche e altri vescovi e sacerdoti cattolici.

Sull’altare è stata posta una croce realizzata con il legno dei barconi approdati a Lampedusa. Ai piedi, le immagini di alcuni sbarchi e dei profughi in cammino verso una nuova vita. «Non possiamo abituarci e rassegnarci alla morte di tante persone. Non possiamo nemmeno assistere impotenti all’innalzamento di muri che separano e uccidono la speranza – ha affermato monsignor Becciu, durante l’omelia -. Ogni viaggio deve poter avere una meta: che sia in Italia o in altri Paesi, questa meta si chiama dignità. Non si può negare la dignità, non si può rifiutare la vita, non si può negare il futuro. Se non saremo capaci di offrire questa possibilità, noi stessi esauriremo le riserve di cultura e umanità del nostro continente».

Ricordando le domande di Papa Francesco all’Europa in occasione della consegna del premio Carlo Magno (“Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?”), Becciu ha sottolineato che «la risposta cristiana non può che essere una risposta carica di responsabilità e di speranza».

Responsabilità perché «è possibile e doveroso farci carico della situazione, è possibile far giungere in sicurezza altri immigrati grazie ai corridoi umanitari» ed «è da auspicare che progetti come questi siano accolti e messi in pratica anche in altri Paesi». Ma «la nostra risposta – ha aggiunto – dev’essere carica di speranza, e contribuire a seminare accoglienza e mitezza laddove si spargono la zizzania della rabbia e il veleno del clamore populista».

 

24 giugno 2016