“Le lacrime di San Lorenzo”, un poema in prosa
Nel discorso del padre al figlio dodicenne, uno zibaldone di ricordi, frammenti e riflessioni, in cui vita e morte rievocate dal potere magico del dettato
Nel discorso del padre al figlio dodicenne, uno zibaldone di ricordi, frammenti e riflessioni, in cui vita e morte rievocate dal potere magico del dettato
È possibile comporre oggi un poema in prosa? Julio Llamazares, nato nel 1955 a Vegamian, un paese in provincia di Léon che non esiste più perché sommerso dalle acque, dimostra che il tentativo sarebbe legittimo, ancorché anacronistico. L’esempio più recente lo troviamo in Le lacrime di San Lorenzo (Codice, pp. 177, 14,90 euro), nel quale un padre, separato dalla moglie, cerca di parlare col figlio dodicenne, di nome Pedro, sotto il cielo notturno illuminato dalle stelle cadenti del 10 agosto. Ne deriva uno zibaldone di ricordi, frammenti e riflessioni, privo di spunti tematici prevalenti, a parte l’isola di Ibiza, luogo in cui l’autore trascorse una gioventù carica di attese. Ad ogni scia luminosa corrisponde la testimonianza di una persona mancante: uomini e donne che avevano contato molto e poi sono scomparse in un attimo.
Chi altri, se non uno scrittore spagnolo, poteva affrontare una simile impresa? Legare le emozioni fra di loro quasi fossero perle di una medesima collana, senza precipitare nel caos emotivo del passato, sapendo che la memoria, come leggemmo nel primo romanzo di Llamazares La pioggia gialla (pubblicato da Einaudi nel 1993, sei anni dopo che era stato scritto), può essere «una menzogna senza fine». Il piccolo interlocutore resta spesso in silenzio, lasciando che l’adulto reciti il proprio discorso, con fare eloquente e teatrale, ieratico e altisonante, spesso rivolto a noi lettori. Vita e morte si scambiano di posto con notevole disinvoltura, entrambe rievocate dal potere magico del dettato.
La storia europea resta sullo sfondo, simile al bagliore lontano di un tramonto perduto. Più forti e vividi appaiono i profumi estivi, i sogni infranti, le illusioni smarrite, gli amori finiti. È come se nelle parole che il protagonista rivolge al suo bambino tornassero quelle che lui sentiva da suo padre, in una catena fantasmatica di grande fascino che sembra azzerare le generazioni, tracimate come le foglie dal trascorrere delle stagioni, fino alla domanda estrema, formulata nell’ultima pagina: «Non sarà Dio, il tempo?».
A ben pensarci è stato Cervantes a fondare, sulle ceneri del poema cavalleresco italiano, le basi del moderno romanzo europeo. Nel gesto genialmente parodistico dell’indimenticabile hidalgo brucia la febbre degli antichi eroi, ma uno come Llamazares sembra non sapere che farsene del semplice disincanto. Altrimenti non scruterebbe insoddisfatto il cielo notturno alla ricerca di un significato che non è riuscito a trovare sulla terra. Tutte le epoche finiscono, gli aveva confidato un vecchio amico. È inutile prolungarle artificialmente come fanno in molti, ignari del fatto che la loro natura consiste proprio nella fugacità. Noi, dobbiamo ammetterlo, siamo con lui: per questo consideriamo Llamazares, che sarebbe riduttivo valutare come un semplice epigono di Juan Benet, non meno significativo di altri più celebrati suoi compagni di viaggio, da Javier Cercas a Javier Marías.
15 febbraio 2016