“Zoro” racconta il Congo con Medici senza frontiere

Presentato a “Il cinema in piazza” il documentario “CongoTour” di Diego Bianchi. Girometti (Msf): «Volti, storie e sfide di chi vive una crisi dimenticata»

È nato «dalla volontà di mostrare e raccontare il lavoro di una delle più prestigiose organizzazioni non governative», in un momento in cui capita spesso «di vederle screditate affrontando il tema delle migrazioni» pur senza averne «una conoscenza diretta». Così Diego Bianchi, attore e volto televisivo noto anche con lo pseudonimo Zoro, ha presentato ieri sera, 11 luglio, “#CongoTour”. Realizzato nell’estate 2018 in occasione di un viaggio nella provincia africana del Nord Kivu per visitare i progetti di Medici senza frontiere attivi sul territorio, il documentario è stato proiettato al Casale della Cervelletta, nella riserva naturale Valle dell’Aniene, nel contesto dell’iniziativa “Il cinema in piazza”. «Nonostante risalga ad un anno fa – le parole di Bianchi -, questo racconto è ancora molto attuale rispetto al clima polemico italiano che si respira sulle migrazioni e spero possa essere utile mostrare la contraddizione di un Paese bellissimo ma anche pieno di difficoltà e dolore: il Paese autentico e non quello turistico».

Giorgia Girometti, Alessia Ripandelli, Diego Bianchi
Giorgia Girometti, Alessia Ripandelli, Diego Bianchi

 
La provincia del Nord Kivu, una delle 26 della Repubblica Democratica del Congo, si trova nella zona orientale del Paese africano, dove l’organizzazione medico umanitaria internazionale indipendente fondata nel 1971 opera da circa 40 anni con uno dei suoi principali programmi di intervento. «In diverse aree del Congo – ha spiegato Claudia Lodesani, medico infettivologo e presidente di Msf Italia – forniamo assistenza alle vittime del conflitto e delle violenze, campagne di vaccinazioni contro epidemie come l’ebola e malattie endemiche come la malaria e, ancora, servizi per la salute delle donne, assistenza medica e psicosociale ai pazienti affetti da hiv e aids». In particolare, le province del Kivu – Nord-Kivu, Sud-Kivu e Maniema – sono ancora segnate dalle guerre che hanno interessato il Congo negli anni ’90 e anche dal 2004 al 2008, nonché dalle nuove ondate di violenze del 2016; nel solo 2017 sono stati oltre 4 milioni gli sfollati e l’aspettativa media di vita, dato lo scarso accesso all’assistenza sanitaria, è oggi di circa 58 anni mentre un bambino congolese su 10 muore prima dei 5 anni. «Serate come questa – ha detto ancora Lodesani – sono importanti per fare capire, attraverso il racconto empatico come quello di Bianchi, qual è realmente la situazione in quei luoghi da cui i migranti partono e anche per dimostrare che c’è chi prova davvero ad aiutarli “a casa loro”».

(foto: Medici senza frontiere)

In pieno stile “Propaganda Live”, programma che Bianchi conduce su La7, il documentario è stato interrotto più volte per lasciare spazio al commento dell’artista e delle due operatrici di Msf che lo hanno accompagnato nel viaggio attraverso le città di Kinshasa, la capitale del Congo, e Goma, sulla riva settentrionale del Lago Kivu, fino alle foreste e nei reparti dell’ospedale di Masisi, nel Nord Kivu. «La missione di Medici senza frontiere è curare, portando aiuto laddove ce n’è più bisogno – ha sottolineato Giorgia Girometti, che ha lavorato in Repubblica Democratica del Congo per dieci mesi come responsabile della comunicazione – ma anche testimoniare e cioè raccontare quelle emergenze che non occupano mai le prime pagine dei giornali, portando in Italia e in Europa i volti, le storie e le sfide di chi vive una crisi dimenticata».

Sui volti dei più piccoli si è soffermata Alessia Ripandelli, infermiera. «In un Paese in cui la malnutrizione è una delle prime cause di morte tra i bambini – ha detto – è toccante vedere come a volte siano ragazzini ancora non maggiorenni ad accompagnare i fratellini più piccoli al nostro ospedale per le terapie». A piedi nudi, stringendoli sulle spalle come un fagotto, «arrivano a Masisi senza farsi fermare dalla distanza, dalla pioggia né dal fango – ha concluso – perché sanno che il trattamento deve essere routinario per essere efficace e hanno capito che solo così possono sperare di salvarli».

12 luglio 2019