«Io una volta abitavo qui», lo stile tagliente dei racconti di Jean Rhys

Il libro è frutto di una scelta antologica da precedenti raccolte. Spiccano i testi ambientati nei Caraibi nei quali si coglie lo scarto tra fra nativi e i loro conquistatori

Per capire cosa sia stato il colonialismo europeo nell’epoca moderna e quali profonde conseguenze abbia prodotto nella coscienza occidentale, dopo aver letto i manuali storici e riflettuto sui numerosi saggi composti al riguardo, dovremmo tornare ai romanzi scritti sull’argomento: ad esempio quelli di Jean Rhys, nata nel 1890 in Dominica, nell’arcipelago caraibico, da madre creola e padre gallese, e morta in Inghilterra nel 1979. Fra matrimoni falliti, alcolismo e solitudine, la Rhys ebbe una vita inquieta e avventurosa, come se non fosse mai riuscita a dare un senso pieno alla sua inesausta ricerca di verità: in quanto figlia dei dominatori, in quanto donna, in quanto scrittrice.

Il successo arrivò solo in tarda età col Grande mare dei sargassi (1966), che riprende il tema chiave dell’orfanità e dell’abbandono presente in Jane Eyre, capolavoro di Charlotte Brontë, collocandolo sullo sfondo dello schiavismo ottocentesco in Giamaica; ma non le diede soddisfazione, anzi parve esacerbare certe tensioni emotive senza farla uscire dal dorato isolamento nella campagna del Devon: una condizione conquistata con vera cocciutaggine che l’accompagnò sino al termine dei suoi giorni.

Jean Rhys, tanto era confusa e inquieta
nella vita, tanto si mostrò perspicace nello stile che, sulla pagina, risulta tagliente e affilato, come se i silenzi contassero più delle parole e il non detto dimostrasse di essere assai più significativo di quanto dichiarato. Lo dimostrano i racconti compresi in Io una volta abitavo qui (Adephi, pp. 157, 16 euro, traduzioni di Marisa Caramella e Laura Noulian), frutto di una scelta antologica da precedenti raccolte, una addirittura del 1927, un’altra del 1968, l’ultima targata 1976. Incontri sbagliati, educazioni bigotte, bilanci pieni di rimpianti, amarezze metropolitane. La voce, in prima o in terza persona, sembra dettare la storia da dietro un muro, come se il soggetto fosse azzerato.

Trionfano i dialoghi spesso vani e inconcludenti. Spiccano i testi ambientati nei Caraibi nei quali si coglie lo scarto insostenibile fra i nativi e i loro conquistatori: non a caso chi fra i bianchi avesse deciso di varcare la soglia divisoria fra gli uni e gli altri era quasi sempre destinato a fare una brutta fine, considerato pazzo, eccentrico, visionario. La scrittrice non esprime un giudizio esplicito, lascia semmai al lettore il compito di elaborarlo: quanto a lei, basta apprezzare l’eleganza della forma in cui si esprime per comprendere da quale parte stava. Resta nella memoria il tratto quasi chirurgico della sua prosa che, specialmente quando viene chiamata a rappresentare un sentimento nostalgico, reclina su se stessa in una specie di pudore distintivo.

Così accade nel breve racconto finale
da cui prende il titolo l’intera raccolta: la protagonista torna dopo chissà quanti anni nella sua vecchia casa dove forse è cresciuta da piccola. Ci sono due bambini impegnati a giocare davanti alla porta. Lei li chiama ma loro non rispondono. Perfino quando si avvicina quasi a toccarli, danno l’impressione di stare pensando ad altro. Come se non la vedessero. Il maschio dice alla femmina, forse la sorella: «Andiamo dentro». E scappano via. L’anziana visitatrice presagisce così la propria morte: «Le braccia le ricaddero lungo i fianchi e li guardò correre sull’erba verso la casa. Quella fu la prima volta che capì».

 

12 febbraio 2018