Vittime delle mafie: quattro storie “romane” da ricordare

Il 21 marzo la Giornata della memoria. Tra gli oltre mille nomi che verranno ricordati, quelli di Domenico Nicitra, Rita Atria, Mario D’Aleo e Roberto Antiochia

Tra i 1.081 nomi che il 21 marzo verranno letti in occasione della Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera, ci sono anche alcune storie legate a Roma. Come quella di Domenico Nicitra, 11 anni, scomparso il 21 giugno 1993 insieme allo zio Francesco. Mimmo è un bel bambino, va bene a scuola, frequenta la parrocchia. Ma il padre, Salvatore Nicitra, siciliano di Palma di Montechiaro, è uno degli ultimi esponenti della Banda della Magliana. Boss dell’azzardo. È in carcere quando il bambino viene sequestrato con lo zio. Non sono più tornati e neanche i corpi sono stati ritrovati. Nessuno ha mai parlato. Una vendetta trasversale o l’eliminazione di Mimmo come testimone dell’uccisione dello zio. Una morte dimenticata, in fondo era figlio di un mafioso. Ma è vittima innocente, come tutti i bambini, e per questo il suo nome anche quest’anno, sarà letto, a Roma come in centinaia di altri luoghi.

Così come quello di Rita Atria, nata a Partanna e morta a Roma, a 17 anni, sul marciapiede di via Amelia, al Tuscolano. Rita era figlia di un mafioso, così come lo era il fratello. Entrambi uccisi. La cognata Piera Aiello, decide di affidarsi alla magistratura, Rita la segue. Va e racconta. Testimone di quello che ha visto e sentito. Forse è solo desiderio di vendetta ma poi l’incontro con Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala, la cambia. Paolo, che la chiama “Picciridda”, la accompagna con delicatezza. È un’altra vita per la ragazza. Poi il distacco. Borsellino a Palermo e Rita a Roma, in una casa protetta dalle forze dell’ordine e dove frequenta il liceo Augusto. Il 19 luglio, con la strage di via D’Amelio, Rita precipita di nuovo nel buio. Ma nel suo diario lancia ancora un grido di speranza: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci». Ma il dolore è troppo: «Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta». Così sceglie di fermare i suoi giovani anni, settima vittima di via D’Amelio.

E un altro liceo romano, il Cavour, ci riporta alla memoria un’altra vittima innocente. Il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, cresciuto all’Appio Latino, la passione per il calcio, prima nella squadra della parrocchia e poi nelle giovanili della Lazio. Poi la scelta dell’Arma. È bravo, D’Aleo. Così ad appena 26 anni, il 28 maggio 1980 viene nominato comandante della compagnia di Monreale, il territorio dei “corleonesi”. Il precedente comandante, il capitano Emanuele Basile, era stato assassinato davanti alla moglie e alla figlia il 4 maggio. Perché aveva colpito duramente i mafiosi. D’Aleo ne raccoglie il testimone, proseguendo le indagini, con importanti arresti. Il clima diventa sempre più pesante ma il capitano, come quando giocava a pallone, non si tira indietro. E i mafiosi lo capiscono. Così il 13 giugno 1983, tre killer lo attendono sotto casa. D’Aleo è accompagnato dai suoi uomini di fiducia, l’appuntato Giuseppe Bommarito e il carabiniere Pietro Morici. Vengono uccisi e i loro nomi sono letti ogni 21 marzo. Dal 7 maggio 2021 una grande targa lo ricorda nel cortile del suo liceo Cavour.

La memoria che si fa impegno, come nell’ultima storia. È quella del poliziotto Roberto Antiochia, nato a Terni ma vissuto sempre a Roma, al Nomentano. Frequenta un altro liceo storico della Capitale, il Giulio Cesare, per poi entrare in Polizia. Nel 1983 viene destinato alla Squadra Mobile di Palermo dove lavora col capo della “catturandi” Beppe Montana, che viene ucciso il 28 luglio 1985. A sostituirlo è Ninni Cassarà. Antiochia aveva chiesto il trasferimento a Roma ma ai funerali di Montana si accorge che Cassarà non è tutelato. Sa che Beppe e Ninì lavoravano insieme e quindi entrambi per la mafia erano un pericolo da eliminare. Così chiede di scortarlo, rinviando il trasferimento. Lo fa fino all’ultimo. Il 6 agosto i mafiosi li attendono sotto casa di Cassarà. Dopo i primi colpi Antiochia tenta di fare scudo al suo capo. Entrambi vengono massacrati da decine di colpi. La mamma Saveria non si chiude nel dolore. «Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te», diceva. Ma poi è proprio con lei che nasce il percorso di Libera, perché sarà lei a dire a don Luigi Ciotti: «Io raccolgo altri familiari, li conosco». E lo fece davvero. Quei familiari che in centinaia apriranno la marcia del 21 marzo. (Antonio Maria Mira)

18 marzo 2024