Violenza contro le donne, come nascono i rapporti “malati”

L’isolamento e la paura in chi subisce offese e aggressioni rendono difficile la via d’uscita. Fondamentale chiedere aiuto ma è importante l’ascolto non giudicante

In questi ultimi anni sembrano aumentare in modo esponenziale, insieme a un malessere generale e alla scarsa gestione e controllo della rabbia, atteggiamenti estremi di violenza quale soluzione ed appagamento in risposta alla frustrazione. Che si tratti di sofferenza emotiva, disadattamento, cattiveria o psicopatologia, poco cambia nel risultato: i danni apportati alla “vittima”. Crescono gli episodi di “femminicidio”, ultima espressione di un percorso ben più lungo, fatto di maltrattamenti fisici e psicologici (a volte già noti alle Forze dell’Ordine), che poi culminano nell’omicidio della compagna/moglie come atto punitivo alla mancata assoggettazione.

Al di là di quanto ci si possa aspettare, le vittime non sempre provengono da un ceto sociale e da una scolarizzazione bassa, con scarse capacità introspettive o deficit di qualche tipo. Nella mia pratica clinica con donne vittime di maltrattamenti, sia fisici che psicologici, ho potuto constatare come la nascita del rapporto sentimentale sia stato caratterizzato dall’incontro di un bisogno disfunzionale legato a un momentaneo stato di difficoltà emotiva o legato ad uno stile di comportamento aggressivo subìto, direttamente od indirettamente, anche nella famiglia d’origine. Inizialmente, questo tipo di rapporto è gratificante e la “vittima” è felice delle attenzioni che riceve, si sente amata, si fida. Anche la forte gelosia viene spiegata e vissuta come una dimostrazione di interesse. Pian piano le regole si fanno più rigide e il rapporto tende ad essere più totalizzante ed è la fase in cui parenti ed amici vengono progressivamente esclusi fino a che il rapporto stesso rappresenta l’unico punto di riferimento. Altro segnale disfunzionale è la svalutazione della persona, fatta di derisione, critiche ed offese manifestate a più livelli. A questo punto, l’aggressione è continua. Ogni offesa ed ogni cattiveria si somma a tutte le altre innescando la paura di reazioni sempre più pericolose e bloccando l’azione di fuga. Quando, e se, la vittima si oppone al condizionamento, viene scatenata la violenza.

Tra le caratteristiche che accomunano le donne vittime di violenza compare l’isolamento sociale e la paura. A volte è presente una visione distorta della realtà che porta ad accettare i comportamenti dell’altro dubitando di sé, sentendosi inadeguata e convincendosi di dover sopportare quella situazione per mantenere la “stabilità” della coppia e/o della famiglia.  L’autostima minata, il senso di colpa e la vergogna rendono difficile la richiesta d’aiuto e la via d’uscita. Quando la violenza è psicologica, è più difficile riconoscerla ed è per questo che a volte la vittima tarda a rendersene conto. Chiedere aiuto è fondamentale e non sempre la vittima riesce a farlo in prima persona; quali possono essere dei segnali, degli indicatori che possono aiutarci a comprendere se una donna subisce violenza? A livello psicologico si può presentare depressione, attacchi di panico, perdita di autostima; a livello comportamentale: ritardi o assenze dal lavoro, agitazione in caso di assenza da casa, racconti incongruenti relativi alla comparsa di lividi o ferite, chiusura od isolamento sociale; a livello fisico: contusioni, bruciature, lividi, fratture, aborti spontanei, disordini alimentari.

Le donne sono reticenti a parlare per vergogna, per paura che il compagno lo venga a sapere, per timore di non essere credute, perché pensano sia colpa loro. Se si ha il sospetto o si pensa che una donna che conosciamo è vittima di violenza e/o stalking da parte di un uomo con cui è, o è stata, è molto importante convincerla a parlarne, ascoltandola con un atteggiamento non giudicante, offrendo supporto e rimandandola ad un aiuto professionale. (Lucia Calabrese, psicoterapeuta)

22 dicembre 2021