Viet Thanh Nguyen, il Vietnam e i meccanismi della memoria

Con “Il simpatizzante” (2015) è diventato una star della letteratura internazionale, con “Niente muore mai” racconta il Vietnam riflettendo sui meccanismi di falsificazione della memoria

Viet Thanh Nguyen nacque nel 1971 a Buon Ma Thuot: a soli quattro anni fu costretto ad emigrare con la famiglia negli Stati Uniti lasciando il Vietnam in fiamme. All’inizio risiedette in un campo profughi della Pennsylvania. Era un ragazzo sveglio con uno spiccato talento come scrittore. Si formò in California dove cominciò a pubblicare i suoi libri inevitabilmente legati al trauma della guerra. Oggi è una star della letteratura internazionale, soprattutto grazie al romanzo Il simpatizzante (2015), tradotto in ogni parte del pianeta (da noi Luca Briasco): la storia di una spia vietnamita, dalla personalità multiforme, teso a sopravvivere in un mondo che sembra marcio; notevoli sono anche i nove racconti, altrettante variazioni sui temi dell’identità lacerata, compresi in I rifugiati (2017). Incastonato fra questi due testi narrativi, figura un’opera di saggismo integrale, Niente muore mai. Il Vietnam e la memoria della guerra (pubblicata, al pari delle due precedenti prove, da Neri Pozza, pp. 391, 19 euro), che scopre gli ingranaggi di Nguyen e si configura come una riflessione sui meccanismi falsificatori della memoria.

Il perno tematico intorno a cui ruotano queste pagine, costruite mediante innesti fotografici alla W. G. Sebald, resta la Guerra del Vietnam (o Guerra americana, secondo la prospettiva che vogliamo assumere), quasi sempre strumentalizzata, o in senso buono, nel tentativo di essere compresa, o in senso cattivo, sperando di poterne disinnescare la carica ancora oggi pericolosa. Indimenticabili le note autobiografiche sui pellegrinaggi nei cimiteri bellici: il black wall a Washington e la piccola tomba di Pol Pot ad Anlong Veng, in Cambogia, accanto al nuovo casinò, dove ci fu l’ultimo bastione dei Khmer Rossi. Ogni ricordo degli eccidi compiuti dovrebbe chiamare in causa, più che le vittime, i carnefici. Ma, come dichiarò Aleksandr Isaevic Solzenicyn nell’Arcipelago Gulag, al quale noi italiani potremmo aggiungere Primo Levi, «la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore?».

Tuttavia, finché non troveremo il coraggio di farlo, non potremo mai riconoscere, afferma Nguyen, «il nostro potenziale di far del male agli altri». Fino a dichiarare: «Identificarsi con l’umano, e negare la disumanità propria e della propria gente, è il modello estremo di politica d’identità». Viceversa, «se noi ammettiamo la nostra capacità di fare del male, possiamo riconciliarci con chi crediamo l’abbia fatto anoi». Ecco perché, secondo Nguyen, anche Paul Ricoeur sbaglia nel momento in cui tende a considerare l’altro sempre come la vittima. «Per trattare con gli altri reali», spiega, «dovremmo confrontarci con le loro vite, le loro culture, le loro particolarità, i loro nomi e così via. E nel farlo», conclude, «vedremmo che, come noi, anche loro sono generalmente egoisti».

Non c’è bisogno di sottolineare la formidabile attualità di tali assiomi che, se portano lo scrittore a stroncare gran parte della produzione cinematografica e letteraria ispirata al Vietman (da Apocalypse Now a Gran Torino, fino a Tim ‘O Brian), offrono a tutti noi preziosi materiali di confronto critico. Memorabili, in particolare, le considerazioni riguardo all’ipocrisia di certi perdoni pubblici, fino alla risoluzione evangelica (Luca, 6, 32–35), così riformulata: «Dare senza sperare in un ritorno».

 

 

11 dicembre 2018