Videogiochi, strumento di condivisione e “autoefficacia”

Videogiocare non vuol dire necessariamente fuggire dalla realtà. Anche queste esperienze possono rappresentare un’occasione di apprendimento

Durante un incontro con il gruppo di tirocinanti che seguo presso il consultorio familiare al Quadraro, ho provato a fare un esperimento: ho chiesto loro di dirmi le prime parole, i primi pensieri, associazioni di idee collegate con la parola “videogiochi”. Sono emerse parole come abuso, dipendenza, chiusura, virtuale (vs reale), adolescenza, bassa autostima, condivisione e autoefficacia. Sembra evidente come, in larga parte, il concetto di videogiochi sia stato immediatamente associato a un comportamento disfunzionale collegato ad una patologia nell’area delle cosiddette “addiction” (dipendenze). Discutendo con il gruppo ci siamo accorti come il tema dei videogames evochi istantaneamente una serie di pregiudizi correlati: siamo automaticamente abituati ad associare l’uso di videogiochi ad un comportamento sbagliato, indice di sofferenza o difficoltà, oltre che immaginare gli adolescenti come unici (e problematici) giocatori.

È l’uso che si fa di un determinato strumento (oggetto) a fare la differenza nella definizione della sua problematicità: questo vale per il cibo, l’allenamento, la televisione o il lavoro. Ogni attività può diventare disfunzionale in base a come viene utilizzata e al significato che acquisisce nella vita di un individuo: seguire un comportamento alimentare ben definito per il proprio benessere fisico è molto diverso da non riuscire a smettere di mangiare, o contare ogni singola caloria di un alimento, come in un disturbo alimentare. Venuto meno il principale pregiudizio, voglio proseguire sfatando i falsi miti che aleggiano intorno al mondo dei videogame, grazie anche ai dati emersi nell’ultimo Rapporto Annuale sul mercato dei videogiochi e sul pubblico dei videogiocatori in Italia nel 2020. Non giocano solo i ragazzi, e non gioca una minoranza: il totale dei videogiocatori in Italia è del 38%, il 13% dei ragazzi e l’11% delle ragazze ha un’età compresa tra i 15 e i 24 anni, e il 13% degli uomini e il 9% delle donne ha un’età compresa tra i 45 e i 64 anni. Chi gioca non lo fa per l’intera giornata o per diverse ore consecutive: la media di utilizzo di telefoni e tablet, per esempio, è di 5 ore a settimane; circa 7 ore per le console (apparecchio elettronico per giocare).

Videogiocare non vuol dire necessariamente fuggire dalla realtà: in un momento particolarmente complesso come quello della pandemia, per esempio, le persone hanno utilizzato il gioco per rimanere connessi con gli amici (moltissimi videogame, infatti, sono multiplayer, ovvero più persone partecipano allo stesso gioco nello stesso tempo). Ma non solo, spesso chi videogioca viene percepito come una persona solitaria, mentre emerge come genitori e figli condividano questa attività in famiglia. Dunque anche i videogiochi possono essere uno strumento orientato al benessere e alla crescita di un individuo. Nel brainstorming con i tirocinanti, insieme alla parola “condivisione”, era emersa anche la parola “autoefficacia”: impegnarsi nella soluzione di un enigma, superare un livello, proseguire in un’avventura, vincere una gara, sono tutte esperienze che la persona può fare attraverso un videogame e che possono favorire la costruzione e/o il consolidamento del proprio senso di essere capace. Quando l’esperienza è anche condivisa, il riconoscimento delle capacità (proprie e altrui) può favorire lo sviluppo della convinzione di sé come efficace.

I videogame propongono esperienze molto diverse fra loro, dagli “esports” (sport elettronici a livello competitivo organizzato e professionistico), che potrebbero entrare a far parte delle discipline olimpiche a partire dal 2024, alle avventure narrative dove abbiamo l’opportunità di calarci nell’esperienza di un personaggio, identificandoci con lui e percorrere passo dopo passo la sua storia. Ad esempio, in una di queste avventure, possiamo impersonificare una donna affetta da demenza: il nostro compito è quello di aiutarla a ricordare alcuni elementi del suo passato e immergerci nel suo vissuto, avendo l’opportunità di sperimentare e comprendere in prima persona l’impatto di questa malattia. In un’altra avventura la protagonista è una guerriera di un antico popolo affetta da psicosi: gli autori si sono avvalsi della consulenza di un professore di Neuroscienze dell’Università di Cambridge, per rappresentare nel modo più realistico e efficace gli effetti della patologia sulla mente umana. Gli autori parlano di «un viaggio sofferto, in cui però il mondo immaginario non è un altro pianeta o un universo parallelo, bensì un mondo creato nella mente di Senua (la protagonista)», e «per fare ciò era necessario mettere la sua psicosi al centro del gioco».

Questi sono solo due esempi fra tantissime proposte del mondo videoludico internazionale. Ogni esperienza, inclusa quella di un videogioco, può rappresentare un’occasione di apprendimento per chi la attraversa: dal ritagliarsi un breve momento di relax nel tran tran quotidiano, al vivere esperienze intense dove scoprire o comprendere meglio sensazioni, sentimenti e vissuti dei protagonisti, che spesso non sono altro che le nostre esperienze o quelle di qualcuno intorno a noi raccontate attraverso i videogame. (Guido Palopoli, psicologo e psicoterapeuta)

10 dicembre 2021