Vertigini: la malattia di Ménière, cos’è e come si cura

La più grave tra le vertigini, si presenta di solito tra i 40 e i 60 anni, nel 90% dei casi colpisce un solo orecchio. Terapie e interventi

Occhi, orecchie e sistema nervoso centrale: affinché una persona rimanga in equilibrio è necessario che tutti questi elementi siano in sintonia. Eppure, a volte, può capitare di sentirsi instabili, storditi e incapaci di mantenere la postura. È la cosiddetta vertigine, ovvero la sensazione di movimento rotatorio che può essere causata da diversi fattori, come disturbi del sistema nervoso, dell’apparato vestibolare, circolatorio.

Tra le vertigini causate da alterazioni dell’orecchio, la malattia di Ménière è di gran lunga la più grave. Si tratta di una disfunzione del sistema di pompa sodio-potassio la cui origine può essere genetica, immunitaria o virale e provoca sia vertigini che perdita dell’udito.

La malattia si presenta di solito nei soggetti adulti, tra i 40 e i 60 anni, con un tasso di incidenza di una persona ogni 1000 e nel 90% dei casi colpisce un solo orecchio. Si manifesta con sintomi premonitori come ronzii all’orecchio, senso di ovattamento, riduzione dell’udito o, a volte, senza nessun sintomo. Segue una crisi vertiginosa rotatoria, che può essere violentissima, con gli oggetti che girano vorticosamente, insieme a nausea, vomito, caduta a terra.

Le crisi possono manifestarsi raramente oppure ogni settimana e anche la durata può variare da alcuni secondi a ore o giorni, dopodiché permane un senso d’instabilità che persiste per diverso tempo. La malattia dura per tutta la vita e condiziona la vita delle persone, anche giovani, che perdono progressivamente la capacità di lavorare, di guidare, di uscire da soli e vivono nell’ansia dell’arrivo di una nuova crisi Per questo la malattia di Ménière è una patologia altamente invalidante, che peggiora gravemente la qualità della vita.

La diagnosi viene effettuata dall’otorinolaringoiatra analizzando la storia clinica del paziente. Si eseguono anche l’esame audiometrico, per valutare la perdita uditiva dal lato colpito, e l’esame vestibolare per capire il grado di alterazione dell’orecchio interno deputato all’equilibrio. Si richiede anche una risonanza magnetica nucleare dell’encefalo per escludere altre alterazioni.

Una volta accertata la malattia di Ménière, si procede con la terapia farmacologica per prevenire le crisi, con antistaminici, diuretici, risparmiatori di potassio, calcioantagonisti, vasoattivi di varia natura, ansiolitici. La ricchezza di terapie proposte e adottate dimostra però che non esiste una terapia medica sicuramente e totalmente risolutoria.

Se i sintomi sono gravi e non migliorano con i medicinali,si deve passare alla terapia chirurgica. Al Policlinico Campus Bio-Medico utilizziamo una tecnica che ho messo a punto quando lavoravo all’House Ear Institute a Los Angeles, ossia lo “shunt endolinfatico”. In pratica, l’endolinfa circola nel labirinto, nella chiocciola e nel sacco endolinfatico. Attraverso il posizionamento di una lamina nell’apertura del sacco si pensava possibile drenare l’eccesso di endolinfa che scatena la crisi della malattia di Ménière.

Questo intervento era ed è tuttora diffuso in tutto il mondo, ma i risultati nel controllo della malattia di Ménière erano comunque scarsi. La mia intuizione è partita dal fatto anatomico che i liquidi che noi volevamo drenare dal sacco endolinfatico, in realtà lo raggiungono tramite il dotto endolinfatico. Per cui se il dotto endolinfatico si chiude, come avviene nella malattia di Ménière, il sacco non funziona più come camera di decompressione, perché non riceve più i liquidi che fanno soffrire l’orecchio e quindi tutto quello che facevamo sul sacco e che nel mondo ancora si fa, era inutile. Per questo ho ideato un intervento chirurgico che si basa sulla decompressione delle meningi e del sacco ma soprattutto del dotto endolinfatico e porta al ripristino naturale delle capacità difensive dell’orecchio nella malattia di Ménière, da me chiamato Dasd (“duct and sac decompression”, ovvero decompressione del dotto e del sacco).

Il risultato è la cessazione delle crisi vertiginose nel 92% dei casi e comunque un miglioramento dalla condizione in un numero ancora maggiore. L’intervento serve anche per prevenire la perdita progressiva dell’udito. È un intervento non traumatico, non doloroso, conservativo della funzione vestibolare e dell’udito. La persona va a casa due giorni dopo l’intervento.  Nei rari casi in cui, pur in presenza di miglioramento, non si abbia tuttavia il risultato sperato, propongo la sezione del nervo vestibolare.

È un intervento sicuramente risolutorio, ma delicato perché si tratta di un intervento neurochirurgico. Con questa tecnica l’impulso della malattia dall’orecchio non raggiunge più il cervello perché il nervo su cui viaggia viene interrotto, mente il nervo acustico rimane intatto, per cui l’udito viene conservato. I risultati sono di totale scomparsa della vertigine nel 99% dei casi e senza alcuna limitazione successiva della vita quotidiana.

È importante sapere che la vertigine di Ménière è una malattia con la quale non siamo condannati a convivere aspettando la prossima crisi vertiginosa. Si può guarire con la corretta terapia, se seguiti nei centri che sappiano utilizzare tutte le possibilità di terapia medica e chirurgica. (Fabrizio Salvinelli – Direttore UOC Otorinolaringoiatria Università Campus Bio-Medico)

11 maggio 2020