Verso il referendum/5. Francesco Clementi: Ultima occasione per restituire fiducia

Il docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia illustra le ragioni del “sì” a un testo che «risponde ai problemi del Paese»

Il docente di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia illustra le ragioni del “sì” a un testo che «risponde ai problemi del Paese». Alla riforma, «un otto pieno»

Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università degli Studi di Perugia, già componente dela Commissione di esperti per le riforme costituzionali nominata dal presidente ermito Giorgio Napolitano, spiega i motivi per dire “sì” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre.

Quale è lo stato di salute della nostra Costituzione? Porta ancora bene gli anni che ha o le occorre un restyling?
La nostra Costituzione è figlia di un patto politico tra cittadini e istituzioni: gode di buona salute nella parte relativa ai valori e ai principi fondamentali, mentre la meccanica – come in tutte le cose – ha bisogno di una ristrutturazione. D’altra parte ciò lo ha previsto lo stesso costituente, introducendo la possibilità di una sua revisione costituzionale tramite l’articolo 138. Non è un caso, peraltro, che le revisioni totali delle Costituzioni – e penso ad esempio a quella recente avvenuta in Svizzera – siano rare mentre quelle parziali siano una regola, non un’eccezione.

Quali sono gli obiettivi della riforma?
Gli obiettivi sono tre, tutti racchiusi nel principio culturale che vuole, come sottolineava allora il compianto Roberto Ruffilli, il cittadino arbitro della decisione politica tramite il suo voto. Si tratta, in particolare, del superamento del bicameralismo paritario con l’eliminazione del doppio voto di fiducia tra Camera e Senato, tema decisivo, se pensiamo che dal ‘94 a oggi su sei elezioni in quattro casi ci sono state maggioranze diverse tra Camera e Senato: un fatto che non poco ha aumentato il potere “di ricatto” dei singoli parlamentari per la formazione della maggioranza di governo. Ancora, si tratta di valorizzare il rapporto tra Stato e regioni in modo che, modificando il Titolo V del 2001, si dia definitivamente un rilievo alle istituzioni territoriali che non hanno mai avuto la dignità di essere presenti nel Parlamento nazionale; infine, di una semplificazione e razionalizzazione dei costi diretti e indiretti della macchina dello Stato. Non mi pare poco, anche se certamente è una riforma più timida sia di quella prevista dalla Terza Bicamerale D’Alema sia del progetto costituzionale Berlusconi, poi bocciato con un referendum nel 2006. D’altronde, con saggezza, questa riforma evita quattro punti sensibili che, in vario modo, hanno fatto naufragare quelle del passato: infatti, non modifica la Parte prima della Costituzione, quella dei valori; non la forma di governo, che rimane di tipo parlamentare; non i poteri del Capo dello Stato; né infine le garanzie, da quelle della magistratura, che rimangono, appunto, intatte, fino a quelle della Corte costituzionale che, tramite il ricorso preventivo contro la legge elettorale, vede aumentati i suoi poteri. Così, con precauzione, anche nel metodo, nel pieno rispetto dell’articolo 138 della Costituzione, hanno approvato tutto in Parlamento (senza leggi speciali o bicamerali di sorta), ricercando comunque il referendum e distinguendo la maggioranza per le riforme da quella per il governo.

Il superamento del bicameralismo paritario occorre davvero? Cosa accadrà all’iter legislativo? Le nostre leggi saranno meno equilibrate?
È necessario superare il bicameralismo paritario perché ha reso più fragile il Parlamento, tanto debole negli ultimi trent’anni da essere sistematicamente vittima dell’abuso del decreto legge, abuso che questa riforma finalmente cancella; e poi perché ha reso più fragile il governo, tanto debole negli ultimi trent’anni da essere sistematicamente posto nell’impossibilità concreta di esprimere un indirizzo politico chiaro anche nell’Unione europea, in ragione di due leggi elettorali incapaci di produrre tramite il voto un’unica maggioranza su due distinte camere; un problema che questa riforma finalmente sana, prevedendo un rapporto fiduciario di tipo monocamerale, qualunque legge elettorale preveda la politica o la sentenza della Corte costituzionale sull’Italicum dopo il referendum. D’altronde, come per gli altri Paesi a democrazia stabilizzata, occorre finalmente superare un bicameralismo fondato sui veti per entrare in un bicameralismo fondato sui voti. Sul procedimento legislativo, apparentemente tanto discusso, il punto è chiaro, ossia: meglio essere certi e puntuali che lasciare all’arbitrio e all’incertezza il modo di approvare gli atti normativi, anche se questo vuol dire perdere qualcosa nello stile. Perché, come è corretto, al pari degli altri modelli bicamerali, contano gli attori non gli atti. Così il procedimento legislativo che risulta è di tipo duale: l’articolo 70 prevede puntualmente al comma 1 quello che deve essere approvato insieme da Camera e Senato, che non è molto; mentre, dal secondo comma in poi, il procedimento è esclusivamente monocamerale, che è pressoché tutto. Si configurano così due soli procedimenti legislativi: o monocamerale o bicamerale. D’altronde si contano, appunto, gli attori che decidono nel procedimento non gli atti che questi pongono in essere. E la legislazione monocamerale è decisamente preponderante rispetto a quella bicamerale.

Il Senato “ridotto” farà risparmiare lo Stato e dovrebbe fungere da raccordo tra Stato, Regioni e Comuni. Funzionerà meglio? In che modo “raccorderà” Stato, Regioni e Comuni? Con quali vantaggi?
Il Senato curerà le questioni che toccano le autonomie, la verifica dell’impatto delle politiche Ue e delle politiche nazionali, approvate per lo più alla Camera, sui territori. E poi eserciterà il controllo, mediante pareri, delle nomine del governo. Si configura così un nuovo bicameralismo: alla Camera ci sarà l’indirizzo politico, ossia la politica, figlia del nostro voto, al Senato l’analisi dell’impatto e la misurazione delle politiche sulle nostre vite quotidiane, definite sulla base dell’indirizzo nazionale anche in tema di Unione europea che si è manifestato e realizzato al Senato, anche se sugli strumenti ordinari (legge europea, legge di delegazione europea) non avrà un potere di veto.  Così, il Senato funzionerà come funzionano quelli degli altri Paesi europei: decisivo per i territori, strategico per misurare le scelte operate dalla politica, importantissimo perché consentirà di misurare quanto le autonomie possono concorrere a definire l’indirizzo nazionale in tema di Unione europea. In una parola avrà un senso e non sarà più un “inutile doppione”, come lo bollò già allora, non a caso, il principale costituzionalista italiano del secolo scorso Costantino Mortati.

A proposito del Titolo V: molte materie passerebbero alla competenza esclusiva dello Stato ma su alcune la definizione dei ruoli non è nettissima. Penso alla sanità: le Regioni hanno in capo l’organizzazione dei servizi, uno dei punti dove maggiormente è tangibile, ad esempio, la diseguaglianza tra nord e sud nell’accesso ai servizi. Come valutiamo la riforma dal punto di vista dell’autonomia delle Regioni?
La riforma del Titolo V elimina le competenze concorrenti: laddove si faceva il tiro alla fune tra Stato e Regioni, giocando sulla pelle del Paese che, in quei conflitti, vedeva ritardi, attese infinite, e stalli a volte davvero inspiegabili. La riforma invece interviene razionalizzando le competenze e introducendo la clausola di supremazia, tanto a tutela dell’interesse nazionale quanto dei diritti perché siano uguali su tutto il territorio, si prevede una norma di chiusura che possa intervenire a “fare il Paese”, laddove appunto serva. Questo si lega al discorso delle politiche, ad esempio quella sanitaria, che soffrono di questa situazione. Politiche che sono estremamente frammentate e disomogenee per tutto il territorio nazionale: dai certificati energetici dei nostri palazzi ai regolamenti edilizi, ai procedimenti amministrativi, alle prestazioni sanitarie figlie di venti leggi sanitarie regionali l’una diversa dall’altra. Ma che Paese è un Paese così frammentato? Così difficile da vivere nel quotidiano dei problemi della vita di ciascuno di noi? Per questo si interviene modificando il rapporto tra lo Stato e le Regioni: per rendere più semplice e diretto il nostro vivere in comune senza ritrovarsi, come in quel film di Benigni e Troisi “Non ci resta che piangerere”, a dover, ogni volta, da regione a regione, ripagare il dazio.

Il referendum abrogativo prevederà un quorum ridotto mentre per proporre leggi di iniziativa popolare le firme necessarie saranno triplicate, da 50 a 150mila. Da una parte sarà più facile dire “no”, ma dall’altra non si rischia di scoraggiare l’interesse per la politica?
La riforma scommette su un potenziamento della democrazia partecipativa, aumentando numero e tipi di referendum e rafforzando le leggi di iniziativa popolare, che finora hanno un tasso di successo pari allo zero. Il referendum abrogativo è maggiormente tutelato se si raccolgono 800 mila firme poiché a fare da parametro saranno i votanti delle ultime elezioni politiche: quindi, o si raccolgono 500mila firme e si fa riferimento al classico quorum dell’intero corpo elettorale; oppure, avendo raccolto più firme, il quorum viene riferito al numero di votanti alle ultime elezioni, di modo che non si possa più giocare a far fallire i referendum invitando gli elettori a non andare a votare. L’iniziativa popolare, invece, viene rafforzata perché c’è obbligo di discussione da parte della Camera, per evitare che l’accorpamento di disegno di legge popolare con disegno di legge parlamentare assorba l’istanza politica e sociale, potenzialmente maggiore di quella parlamentare. Ho sempre pensato che non si debba creare un luogo per fare concertazione, bensì che la concertazione sia un metodo. In tal senso, ritengo che per farlo non serva un luogo ad hoc, che peraltro ancora oggi costa 20 milioni di euro l’anno.

Riassumendo: quali sono i lati positivi della riforma? Quali invece le criticità e i rischi? Riusciamo a dare un voto?
Considerato tutto, ritengo che la riforma si meriti un otto pieno, perché nessuna riforma costituzionale è perfetta essendo figlia di un compromesso politico. Tuttavia questa che siamo chiamati a votare, meglio di altre proposte in questi quarant’anni, risponde, con rispetto e giudizio, ai problemi che in questo Paese si porta appresso da almeno 40 anni. D’altronde le istituzioni servono a prevenire i comportamenti sbagliati, non a incentivarli. E questa riforma ha il merito di favorire comportamenti più virtuosi sottraendo alla politica molte occasioni per evitare di essere responsabile (dalla fiducia monocamerale all’introduzione in Costituzione, che la riforma fa, del principio di trasparenza della pubblica amministrazione, che è un modo nuovo e vincolante per rafforzare la necessità di una nuova visione tra cittadini e amministrazioni). Insomma, a mio avviso, proprio perché la responsabilità e l’identificabilità delle scelte sono le uniche cure reali all’antipolitica – e i cattolici da sempre sono capofila di queste proposte nel nostro Paese, non va dimenticato tutto ciò – abbiamo bisogno di rafforzare istituzioni che facciano emergere questi valori, nel pieno rispetto della nostra tradizione costituzionale, come fa questa riforma. Perché, appunto, la prospettiva delineata evita un nuovo eccezionalismo all’italiana e perché fa del voto dell’elettore il cuore della stabilità delle istituzioni. Di questi tempi, davvero non mi pare poco. Non da ultimo se si considera il contesto di crisi interno dal quale siamo partiti, ossia le elezioni del 2013, fatte di vinti non di vincitori, e quello di tipo esterno, che mostra un mondo sempre più guasto. Questo referendum è un’occasione, forse l’ultima, per ricostruire un circuito di fiducia nel nostro Paese ma anche per il nostro Paese rispetto agli altri che con grande attenzione ci guardano.

28 ottobre 2016