Verso il referendum/11. Paolo Pombeni: “sì” per attivare dinamismo della politica

Lo storico e politilogo: serve «spazio creativo per una nuova classe dirigente». Ma «senza la capacità dei cittadini di partecipare, non c’è legge che tenga»

Lo storico e politologo: serve «spazio creativo per una nuova classe dirigente». Ma «senza la capacità dei cittadini di partecipare alla politica, non c’è legge che tenga»

Per Paolo Pombeni, già ordinario di Storia dei sistemi politici europei e di Storia dell’ordine internazionale alla Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, la nostra è una Costituzione «in crisi non perché in astratto non funziona ma perché è stata immaginata in un contesto che è venuto meno». Il “sì” al Referendum «metterà in moto il dinamismo del sistema politico. Attualmente a muoverlo è l’estremismo: se creiamo uno spazio creativo potrà essere occupato da una nuova classe dirigente». Ma a una condizione, specifica lo storico e politologo: «Che la volontà popolare si voglia impegnare a selezionare un classe politica nuova e poi tallonarla affinché porti a termine gli impegni presi: questo presuppone la capacità dei cittadini di partecipare alla politica, sennò non c’è legge che tenga».

Quale è lo stato di salute della nostra Costituzione? Porta ancora bene gli anni che ha o le occorre un restyling?
La nostra Costituzione sta benissimo dal punto di vista della parte generale, dove vengono impostati valori e obiettivi. Non solo è in salute, ma stabilisce cosa fare in futuro, basti pensare a dove dice che siamo una Repubblica fondata sul lavoro, ma anche a là dove insiste sul rispetto delle minoranze: queste parti stanno benissimo. In merito alla parte organizzativa non è che stia male, è entrata in crisi non perché in astratto non funziona ma perché è stata immaginata in un contesto che è venuto meno.


Obiettivo della riforma è il superamento del bicameralismo perfetto: occorre davvero? Cosa accadrà al Senato, che diventerà “delle regioni”?

Il bicameralismo paritario nasce storicamente dall’idea di affidare il compito di legiferare non a un solo tipo di rappresentanza, quello fondato sulle ideologie, ma anche a una rappresentanza diversa, che con la riforma sarebbe più legata ai territori. Bisogna fare in modo che da un lato continui a esserci rappresentanza di idee politiche, che si esprime ogni 5 anni e, dall’altro, una rappresentanza che si esprime attraverso le differenze esistenti nel sistema regionale e che si rinnova a ritmi diversi rispetto all’altra Camera. Questo comporta un forte vantaggio: il Senato rinnovandosi per quote secondo le differenti scadenze dei consigli regionali porta in scena riflessioni dell’opinione pubblica maturate in tempi diversi da quelle che si sono espresse per l’elezione della Camera. La fiducia, invece, rimane legata al problema della rappresentanza parlamentare e il Senato non entrerebbe nel campo della lotta politica più immediata. Tutto ciò se la riforma funziona: la Costituzione è una legge propulsiva, bisogna vedere se poi ci sarà un’adesione dei cittadini al sistema.

A proposito del Titolo V: molte materie passerebbero alla competenza esclusiva dello Stato ma su alcune la definizione dei ruoli non è nettissima. Penso alla sanità: le Regioni hanno in capo l’organizzazione dei servizi, uno dei punti dove maggiormente è tangibile, ad esempio, la diseguaglianza tra nord e sud nell’accesso ai servizi. Come valutiamo la riforma dal punto di vista dell’autonomia delle Regioni?
Le leggi non creano automatismi ma linee di tendenza, mentre è giusto che le istanze più vicine ai fruitori del servizio abbiano possibilità di esprimere una propria forma di intervento. Nella nuova sistemazione ciò è in astratto possibile, bisognerà vedere come verrà gestito in concreto. Non possiamo far finta che non esistano appetiti accentrativi nella burocrazia centrale, così come esistono appetiti secessionisti nelle burocrazie regionali. Il Senato delle regioni avrà molte possibilità di intervento in tali politiche e può diventare elemento di equilibrio in questa forma di inevitabile concorrenza.

Il referendum abrogativo prevederà un quorum ridotto a fronte di un maggior numero di firme mentre per proporre leggi di iniziativa popolare le firme necessarie saranno triplicate, da 50 a 150mila. Da una parte sarà più facile dire “no”, ma dall’altra non si rischia di scoraggiare l’interesse per la politica?
Quanto al primo punto, credo sia un miglioramento notevole. Ottocentomila mila firme per il referendum abrogativo comportano un quorum più realistico per la validità del referendum. A proposito dell’aumento delle firme per presentare iniziative di legge popolari, credo che si stia scegliendo un meccanismo significativo di raccolta firme per evitare un profluvio di proposte lobbistiche: a quel punto è obbligatoria la presa in considerazione della legge, mentre oggi sono iniziative che finiscono in un cassetto da cui non escono più.

Qualcuno, a proposito dello scenario prospettato da questa riforma, parla di “strapotere” del governo: penso al commissariamento degli enti locali e alla cosiddetta “clausola di supremazia” rispetto alle materie di competenza regionale. Potrebbe essere così?
Occorre distinguere due livelli, quello delle possibilità legislative e quello delle prassi. Nel primo, tutto sostanzialmente rimane come prima. Quello che tutti temono è il momento pragmatico, perché anche con questo sistema attuale i governi hanno grande potere, pensiamo al fatto che facciano e disfino il sistema pubblico televisivo, o allo spoil system sugli incarichi pubblici. Arriva in reazione alla mancata soddisfazione dei vari appetiti lo sgambetto al governo ed è quello che si vuole rendere meno facile. Ma per evitare che la difficoltà di sfiduciare il governo significhi ampliare il suo potere nelle sfere di “sottogoverno” basta smontare finalmente quel sistema: attraverso leggi ordinarie la politica può farlo, e poi il governo deve esser messo in condizione di governare senza negoziazioni.

Soppressione del Cnel: cosa ne pensa? 
Questo è uno degli aspetti della riforma che ha trovato il maggior consenso: il Cnel è una sconfitta storica. La nostra Costituzione ha messo in piedi un ente che avrebbe dovuto essere serio come sede di compensazione delle esigenze dell’economia e del lavoro ma non è servito a niente. Serve un mea culpa dalla classe politica e dalle rappresentanze degli interessi economici che hanno buttato dalla finestra una struttura che sulla carta avrebbe potuto essere una buona possibilità.

Riassumendo, riusciamo a dare un voto?
Questa riforma aprirebbe una fase costituente. Ha le sue debolezze, può essere giudicata bene o male, ma il problema vero sarà metterla in pratica. Anche quella del ‘48 fu giudicata malissimo da tanti giuristi del tempo, e ci ha messo molti anni per entrare in vigore: la Corte Costituzionale nacque nel ’56, il Consiglio superiore della magistratura nel ’59, le regioni addirittura nel ‘70. Anche questa riforma avrà bisogno di essere messa in funzione. Il vero lavoro sarà fare in modo che avvenga in tempi ragionevoli e nel miglior modo possibile: allora sì che potremo darle un voto.

Perché un elettore dovrebbe votare sì?
Perché abbiamo bisogno di mettere in moto il dinamismo del sistema politico. Attualmente a muoverlo è l’estremismo: se creiamo uno spazio creativo potrà essere occupato da una nuova classe dirigente. Sempre che la volontà popolare si voglia impegnare a selezionare un classe politica nuova e poi tallonarla affinché porti a termine gli impegni presi: ma questo presuppone la capacità dei cittadini di partecipare alla politica, sennò non c’è legge che tenga.

18 novembre 2016