“Verso il Mar Bianco”, il magma in ebollizione di Malcolm Lowry

Romanzo giovanile in cui la dimensione tematica appare abbastanza nebulosa, quasi come una cartapesta per legittimare la decisione di prendere la parola

Di un grande autore dovremmo leggere tutto, compresi gli scartafacci. Se poi lo scrittore si chiama Malcolm Lowry, nato nel 1909 a Birkenhead, di fronte a Liverpool, e morto a Ripe, nel Sussex, a soli quarantotto anni, distrutto dall’alcool e dai sonniferi, dopo una vita di viaggi e dispersioni, allora tale proponimento acquista significato ulteriore, visto che nel caso in questione il non-finito, in senso michelangiolesco, rappresenta un tratto espressivo dell’intera sua opera. In fondo anche “Sotto il vulcano”, uno dei vertici della letteratura novecentesca, corrisponde a una tensione irrisolta. I due scrittori di riferimento per Malcolm Lowry furono Conrad e Melville: da una parte l’anelito assoluto che nessun uomo potrà mai vedere soddisfatto; dall’altra la balena che salta inesausta sotto il cielo biblico. Si trattava di una passione lirica rispetto alla quale ogni struttura chiusa si sarebbe rivelata inadeguata.

Sin dall’inizio Lowry produsse splendide rovine romanzesche, relitti narrativi: eppure negli esiti in apparenza fallimentari trovò, dentro il respiro descrittivo degli oceani, dei porti, dei mercantili, dei capitani, dei suoi uomini e delle sue donne alla costante ricerca di una verità destinata a sfuggire, gli emblemi fantastici in grado di sostenere il formidabile ritmo vitale da cui lui prendeva alimento. Per questa ragione “Verso il Mar Bianco” (Feltrinelli, pp. 347, 25 euro), tradotto e curato da Marco Rossari, non dovrebbe essere soltanto un regalo destinato a un ristretto novero di appassionati. Stiamo parlando del leggendario “In Ballast to the White Sea”, romanzo giovanile per lungo tempo considerato perso nell’incendio del capanno di Dollarton, nei pressi di Vancouver, dove Lowry abitò con la seconda moglie Margerie. Recuperato in anni recenti grazie alla madre di Jan Gabrial, la prima moglie, che ne aveva conservato una copia carbone, ripristinato in una versione filologica
accettabile da Patrick A. McCarthy, è una specie di magma in ebollizione la cui dimensione tematica appare, come spesso avviene in Lowry, abbastanza nebulosa, quasi fosse una cartapesta per legittimare la decisione di prendere la parola.

C’è un giovane studente di Cambridge in partenza per la Norvegia dove vive il romanziere che sembra aver già composto il libro che lui vorrebbe scrivere; una storia d’amore travagliata; un fratello in crisi; e poco altro. Non serve sapere che Lowry trasse spunto dalle proprie vicende biografiche: il rapporto difficile col padre, la vocazione marinaresca che lo segnò nella giovinezza, il sogno della gloria letteraria. Contano assai di più le sirene delle navi che entrano in porto, le bandiere sventolanti, il sibilo del vento, la nuvolaglia stracciata, i gabbiani che celebrano chissà quali accadimenti, le scritte di vernice sulle fiancate delle imbarcazioni: Direction Oslo. Fra i banchi di nebbia la cattedrale di Liverpool sembra un castello feudale, ma è proprio lì, nel frastuono del molo in perenne movimento, nel traffico intricato delle prue, che il giovane protagonista diretto verso il mitico nord prende coscienza della propria emozione: sarà pure, secondo alcuni, inconcludente e vana, una speculazione priva di senso, semplice fantasticheria, romanticume da spazzar via nella serietà professionale, ma alla fine diventerà l’unica vera ragione di vita, l’anima di tutte le cose. Così nasce uno scrittore.

25 marzo 2019