Vangelo e malattia tra Roma e il mondo: suor Giuseppina Vannini

Ritratto della cofondatrice delle Figlie di San Camillo, che il 13 ottobre salirà all’onore degli altari: il carisma romano di un amore materno

Sono poche nei Vangeli le figure con cui Gesù si identifica esplicitamente. Tra queste ci sono i malati. Il Vangelo di Matteo individua gli eredi del Regno in coloro che si sono approssimati a Gesù come segue: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Visitare i malati è il carisma che conduce agli altari – il prossimo 13 ottobre – Giuseppina Vannini, la cofondatrice delle Figlie di San Camillo, una congregazione che oltre ai tre voti di povertà, castità e obbedienza, ne rispetta un quarto: quello del servizio agli infermi anche fino a mettere in pericolo la propria vita. Oggi la sua congregazione, ramo femminile della famiglia religiosa fondata da Camillo De Lellis nel XVI secolo, conta circa 800 religiose presenti con le loro opere in 22 Paesi di 4 continenti. Ma le origini di questa storia sono romane, come la sua protagonista.

Al secolo Giuditta Vannini, la fondatrice delle Figlie di San Camillo nacque a Roma il 7 luglio 1859, nella città ancora governata dal Papa Re. La famiglia, che viveva vicino a piazza di Spagna, in via di Propaganda, era composta dal padre Angelo, dalla madre Annunziata Papi e da due altri fratelli: la sorella maggiore Giulia e il fratello minore Augusto. Il padre, cuoco, trasferì la famiglia ad Ariccia per prendere servizio alle dipendenze di un nobile locale. Ma in breve, a causa di un malore, morì. E dopo tre anni perì per malattia anche la moglie. Ad appena sette anni Giuditta rimase orfana e fu separata dai suoi fratelli. Il piccolo Augusto fu affidato a uno zio mentre la sorella Giulia fu affidata alle suore di San Giuseppe al Foro Traiano. Giuditta, invece, venne affidata alle Figlie della Carità nel Conservatorio Torlonia. In quell’ambiente crebbe e giunse a diplomarsi come maestra d’asilo, a 21 anni. Il suo desiderio di abbracciare la vita religiosa fu frustrato per oltre un decennio: tentò di essere accolta nel noviziato delle Figlie della Carità a Siena ma dopo il periodo di prova fu valutata inadatta. Tornò al Conservatorio Torlonia e successivamente ci furono altri due tentativi, nel 1886 e nel 1888, ugualmente infruttuosi.

A 32 anni, nel corso di un ritiro spirituale, ebbe modo di incontrare il camilliano Luigi Tezza, che dalla sua famiglia religiosa aveva avuto l’incarico di tentare la costituzione di un ramo femminile dei camilliani. Giuditta, che in religione avrebbe assunto il nome di Giuseppina, vide nella proposta di padre Tezza la promessa di riscatto del Signore per il suo desiderio a lungo frustrato di mettersi al suo servizio. Nel 1892, col consenso del cardinale vicario dell’epoca, nacque la nuova famiglia camilliana composta da Giuseppina e da due consorelle (Vittorina Panetta e Teresa Eliseo) che presero alloggio in via Merulana, vicino all’Ospedale San Giovanni. Già l’anno successivo la famiglia giunse a 14 sorelle e fu necessario spostarsi in una casa più grande, in via Giusti. Nel 1895 Vannini viene eletta superiora del nuovo istituto.

La tenacia della nuova santa è sintomatica della ragione per cui tante donne cercassero nella vita religiosa il riscatto negato  da una società che le teneva in disparte. Basti ricordare che, se il nuovo stato unitario idealizzava la madre e la sposa del periodo risorgimentale, alle donne non veniva concesso alcun diritto. Il voto (anche quello amministrativo) le era interdetto. Per il diritto di famiglia, la necessità dell’autorizzazione maritale precludeva alla donna ogni autonoma decisione giuridica o commerciale. Nel campo dell’istruzione le donne furono escluse da licei e università fino alla metà degli anni ’70 del XIX secolo. Poi vi sarebbero state  ammesse, ma col contagocce. Nel 1890 le laureate in Italia non erano che una ventina e nel decennio successivo sfiorarono appena la cifra di 250.

L’affermazione in Europa di nuove entità statali che secolarizzano molti aspetti della vita sociale (matrimonio, sanità, educazione…) mise in difficoltà un gran numero di famiglie religiose, soppresse  a meno che le loro attività non rappresentassero una qualche utilità per lo Stato. Lo stesso avvenne nel nuovo Regno d’Italia, aprendo però nuove opportunità alle donne attratte dalla vita religiosa. In essa molte sperimentarono forme nuove di testimonianza capaci di trasformare il coinvolgimento nelle opere di carità in un impegno sociale di rilevanza pubblica. In questo senso la storia di Giuseppina Vannini  e delle sue Camilliane si affianca a quelle di personalità come quella di suor Francesca Cabrini, fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, che, emigrata negli Stati Uniti per accompagnare l’esodo degli italiani che espatriavano per sopravvivere, edificò una rete di servizi (dall’asilo alle scuole, dai convitti agli orfanotrofi) per sostenere dapprima i connazionali, allargando poi le braccia a tutti.

Allo stesso modo suor Giuseppina Vannini piegò la propria vita e quella delle consorelle sulle piaghe del povero Lazzaro affinché al malato non mancasse mai il sostegno e l’amore materno, capace di sperare oltre ogni speranza per la guarigione del proprio figlio. Nei 16 anni alla guida della famiglia religiosa, incontrò grandi problemi ai quali seppe far fronte con la grande fede e l’esperienza maturata nella prima parte della sua esistenza.  All’espansione della famiglia (nel 1893 fu aperta una nuova comunità a Cremona e nel 1894 a Mesagne, in provincia di Brindisi) non corrispose però alcuna solerzia nell’approvazione definitiva da parte dell’autorità ecclesiastica. Anzi, Leone XIII in quegli anni vietò la fondazione di nuove comunità a Roma. Di conseguenza la richiesta di riconoscimento avanzata da padre Tezza fu respinta per due volte.

Si prospettò, addirittura, che la famiglia religiosa per sopravvivere venisse allontanata da Roma. Ma per la stima e la volontà del cardinale vicario, che allora era Lucido Maria Parocchi, si allontanò questa minaccia con l’erezione della famiglia in “Pia Associazione” diocesana.
Suor Vannini, poi, dovette subire l’allontanamento da Roma di padre Tezza, suo principale punto di riferimento, che nel 1900 venne inviato in Perù come visitatore della casa camilliana e non fece più ritorno. Dal volgere del secolo la religiosa condusse in prima persona la nuova famiglia, sempre ancorata al primato del servizio ai malati, attraversando in tal modo anche una stagione problematica della Chiesa a Roma, come quella del modernismo.

Quando, nel 1909, Vannini compì 50 anni, poté godere dell’approvazione ecclesiastica dell’Istituto: il cardinale vicario Pietro Respighi, con decreto del 21 giugno 1909, riconobbe le Camilliane come congregazione di diritto diocesano e ne approvò le Costituzioni.
Ma la tempra della religiosa, con le sofferenze dell’adolescenza, le delusioni vocazionali della gioventù, il lavoro per l’esordio e lo sviluppo della nuova famiglia religiosa, era stata messa a dura prova. Generalmente visitava ogni anno le case della sua fondazione ma un ultimo viaggio in quelle francesi e italiane le fu fatale. Una cardiopatia si manifestò al suo ritorno e la costrinse al riposo assoluto.  Quando si spense, a Roma, il 23 febbraio 1911, le sue sorelle erano già presenti in Italia, in Francia, in Belgio e in Argentina. Il carisma romano di un amore materno, fedele e sempre rinnovato verso il malato col quale Gesù si identifica, nel XX secolo si è fatto universale anche grazie a suor Vannini. Attraverso l’opera delle sue figlie spirituali la sensibilità alla indicazione evangelica di Matteo ha raggiunto ogni parte del mondo.

1° ottobre 2019