Un’alleanza terapeutica per curare l’uomo, non la malattia

In un convegno al Policlinico Tor Vergata il punto sul fine vita. Gristina (Siaarti): accompagnare i pazienti, senza accanimento ne’ abbandono

In un convegno al Policlinico Tor Vergata il punto sul fine vita. Gristina (Siaarti): accompagnare i pazienti, senza scadere nell’accanimento o nell’abbandono

Curare non solo la malattia ma l’uomo malato, dando vita a un’alleanza terapeutica che rimetta al centro la persona. Questa missione della medicina è stata riaffermata con forza nel corso di un convegno su “Il fine vita. Senso e prassi” tenutosi ieri, martedì 3 febbraio, nell’aula Anfiteatro Giubileo 2000 del Policlinico Tor Vergata. L’incontro, dedicato agli anestesisti e aperto dal saluto del vescovo ausiliare Lorenzo Leuzzi, incaricato del Centro diocesano per la pastorale sanitaria, ha concluso un ciclo di appuntamenti promossi dal Vicariato in occasione della Giornata per la vita.

«Nel nostro tempo – ha sottolineato Maria Grazia Marciani, docente di neurologia a Tor Vergata -stiamo verificando come le scienze biomediche, pur raggiungendo livelli molto alti, sembrano perdere di vista quello che è il fine primario della medicina: curare, prendersi cura del paziente e fornire un contesto in cui la malattia, la sofferenza e la morte siano più umane e acquistino un significato». Ecco perché gli operatori sanitari sono chiamati a impostare il rapporto di cura sulla “com-passione”. «Cum-patire – ha spiegato Marciani – è l’esperienza di prossimità all’altro vissuta nel rispetto della sua alterità e della sua dignità. Non è solo comprensione ma condivisione».

Anche Giuseppe Gristina, già responsabile del gruppo di studio Bioetica della Siaarti  (Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva), di cui è attualmente segretario tesoriere, si è soffermato sulla necessità di recuperare la dimensione umana del rapporto di cura. Una dimensione che accompagni i pazienti, specie quelli che si trovano in Terapia intensiva, senza scadere nell’accanimento o nell’abbandono. «È necessario un processo di decisione condivisa – ha affermato Gristina – che valorizzi le decisioni dei pazienti o dei familiari e sia impostato sull’ascolto e sul dialogo. L’obiettivo è un’alleanza terapeutica che mette al centro il malato e la sua famiglia». In tanti casi, non solo quelli dei malati terminali, per esempio, le cure palliative potrebbero migliorare notevolmente la qualità di vita. Allora, visto che oggi sono sempre più i pazienti anziani, «la sfida di questo secolo – ha concluso – è quella di ripensare la medicina con ideali nuovi e investire in percorsi di fine vita e strutture sul territorio».

Quando si tocca la sfera della morte, ha sottolineato Gustavo Spadetta, responsabile dell’Unità operativa coordinamento donazione organi del Policlinico Umberto I, è fondamentale non fare confusione con le parole. «Lo stato di coma non è morte: è una condizione patologica ma ancora di vita e la sua irreversibilità è una prognosi, che può anche essere sbagliata e risolversi; la morte è una diagnosi definitiva». Un argomento, quello del fine vita, che oggi è diventato un vero e proprio taboo. «Prima la morte avveniva in casa ed era un fatto naturale anche per i più piccoli, oggi non se ne parla più e molti decidono addirittura di andare a morire in ospedale».

Per questo motivo la comunicazione della morte, per gli operatori sanitari, è diventata sempre più difficile. Su questo aspetto si è concentrata Francesca Leonardis, responsabile della Terapia intensiva Dea al Policlinico Tor Vergata. «Il malato e i suoi familiari hanno il diritto di conoscere la verità nei tempi e nei modi adeguati. Ma se noi per primi non abbiamo elaborato un senso della morte, della sofferenza e del lutto, non saremo in grado di aiutare nessuno». Il giusto comportamento, in questi casi «è accompagnare queste persone nel cordoglio e per contattare la propria angoscia ed evitare errori di comunicazione – ha concluso – può essere molto utile una formazione di tipo psicologico».

4 febbraio 2015