Una Via Crucis per dire basta alla tratta
245 milioni le donne e ragazze over 15 che subiscono violenza. L’iniziativa con “Papa Giovanni XXIII” e Coordinamento diocesano antitratta. Il vescovo Gervasi: «Vogliamo stare accanto a loro». Il vescovo Ambarus: «Ricordare che anche chi le usa è battezzato»
Un segno tangibile – la Croce – e le parole come filo conduttore della Via Crucis per la liberazione delle vittime di tratta e prostituzione, organizzata dalla diocesi con la Comunità Papa Giovanni XXIII e il Coordinamento diocesano anti tratta, che si è svolta ieri sera, venerdì 17 marzo, tra le strade della zona Marconi.
«I numeri della tratta sono drammatici e vogliamo stare accanto a queste ragazze, non voltarci dall’altra parte, e gettare luce su questo dramma», ha spiegato il vescovo ausiliare Dario Gervasi. Solo nel 2020 sono stati individuati 534 diversi flussi mondiali di tratta e ben 245 milioni di donne e ragazze over 15 subiscono una violenza fisica o sessuale in un solo anno. Un’iniziativa, dunque, «per l’opinione pubblica, per le istituzioni, per i cittadini – ha spiegato Gervasi -. Se iniziamo a far conoscere potremo ridare dignità e far vedere a queste donne che noi ci siamo, che non sono sole».
Per il vescovo Benoni Ambarus, incaricato della Diaconia della carità per la diocesi di Roma, «pregare genera bene e vogliamo far nascere in tutti l’amore per l’altro emarginato». Secondo Ambarus, per fare qualcosa di concreto «bisogna ricordare che anche chi usa le donne è battezzato, dunque dovrebbe rendersi conto del male che provoca. Questo è un primo passo per far sì che la gente guardi donne e uomini come altre persone, non come oggetti».
Le 15 stazioni – la prima all’istituto Sant’Anna, l’ultima alla parrocchia San Leonardo Murialdo – sono state accompagnate da scritti di don Oreste Benzi, Papa Francesco e suor Rita Giaretta, fondatrice, a Caserta, della Casa Rut per le vittime della tratta – e dalle storie di alcune donne. Come Elena, ragazza bulgara di 19 anni, e Blessed (nomi di fantasia), nigeriana costretta a prostituirsi a Roma. Hanno raccontato le loro storie durante la X e XII stazione, quando Cristo è spogliato dalle vesti e quando Gesù muore, con le parole-segno “Rispettami” e “Piangi con me”.
«Sono stata venduta dai miei familiari – la testimonianza di Elena – e in Italia chiusa per un mese in casa, picchiata e obbligata alla prostituzione». Ha visto altre ragazze essere violentate e una uccisa sotto i suoi occhi. «Un prete mi ha visto, gli ho raccontato quanto soffrivo e mi ha portato via dalla strada». A salvarsi dopo una serie di aggressioni che l’avevano ridotta in fin di vita anche l’altra ragazza: «La libertà non ha prezzo. L’ho scoperto l’ultima notte, quando sono stata picchiata per non aver portato i soldi. Ho denunciato e sono rinata».
Non solo prostituzione, ma anche sfruttamento nel lavoro. Ahmed (nome fittizio di un giovane pakistano) è arrivato in Italia a piedi dopo un viaggio lungo due anni. L’inizio di un incubo: «Mi affidai a miei connazionali, ma erano criminali. Per 800 euro dovevo lavorare tutti i giorni per 15 ore. Vivevo in una casa stretta e piena di topi». A salvarlo, i volontari della Papa Giovanni XXIII, che lo hanno aiutato a denunciare. La sua parola-segno è stata “Liberami”, alla XI stazione, quando Cristo viene crocifisso.
Ancora, la storia di Barbara: la sua parola, alla V stazione, quando Gesù è aiutato dal Cireneo, è stata “Aiutami”. È una donna trans, violentata da chi ha sfruttato non solo la sua condizione di povertà ma anche problemi psicofisici. Ora, scappata, ha finalmente una casa e segue una cura farmacologica e psicologica.
Tra le altre parole-segno: “Non giudicarmi”, “Cercami”, “Consolami”, “Guardami”, “Dammi la mano”, “Accoglimi”, “Rialzami”, “Abbi pietà”, “Custodiscimi” e infine “Grazie”, per l’ultima stazione. Insieme alle storie di chi ha subìto violenze, quella di un’operatrice, Martina, durante la IV stazione, quando Gesù incontra sua madre. La parola, “Riconoscimi”, è ciò che lei ha fatto una mattina, su un treno regionale, quando ha riconosciuto alcune donne nigeriane già aiutate e ricadute in schiavitù. «Partivano per “lavorare” in altre città sotto la sorveglianza di chi le sfrutta». Martina non è riuscita a far scendere una mamma da quel treno «ma l’ho abbracciata, ricordando sua figlia che ora è in Nigeria dove studia e ha da mangiare, e mi sono ripromessa di fare di più».
18 marzo 2023