Una geografia della solidarietà con lo sguardo sulla fragilità

Serve un lavoro di rete che parta dall’ascolto delle situazioni di vulnerabilità emerse durante i giorni della pandemia. L’effetto detonante della crisi

“Vattene dal tuo paese”: così ha inizio il viaggio di Abramo. Con un comando che a prima vista potrebbe suonare impositivo e sinistro ma, a una lettura più attenta, è un invito al cammino. Un richiamo forte ad abbandonare vecchi schemi, vecchie abitudini, una vita come routine e mettersi in moto facendo esperienza di un incontro, di una relazione che, da consulenti della coppia e della famiglia, potremmo definire una relazione d’aiuto. Abramo è destinatario di un invito a percorrere una terra arida, apparentemente priva del necessario per fare esperienza di un Dio che provvede. E l’invito non è a rimanere nel deserto ma ad attraversarlo, abitarlo ma per abbandonarlo e raggiungere una nuova vita in una terra oggetto di promessa.

desertoA prima vista tutto questo potrebbe sembrare un discorso teorico e non aderente alla realtà. In effetti disegna l’esperienza di ogni persona che ha attraversato il deserto della pandemia: da sola, in compagnia, in famiglia, in relazioni di varia natura anche imposte dalla repentinità della situazione; la sera prima liberi di muoversi e vivere i legami, il giorno dopo bloccati in realtà che hanno mostrato criticità ma anche riservato sorprese positive. E ora che la fase critica del deserto sembra essere alle spalle, si fanno i conti con ciò che resta, con il vissuto di chi nel cammino ha forse perso se stesso, di chi ha avuto la vita messa a dura prova e guarda al futuro non come terra promessa ma come luogo, in alcuni casi ostico e inospitale, da ricostruire e rendere vivibile.

Perché si possa parlare di una terra da edificare, di un uomo da rincontrare con il suo carico di vita, occorre porre l’attenzione sulle tante esperienze di criticità che quest’uomo ha attraversato. Se da una parte, molti hanno anche riscoperto legami, un tempo da vivere piuttosto che consumare, ritmi più blandi e aperti anche al riposo e alla riflessione, dall’altra non pochi hanno sentito bruciare sulla loro pelle la fragilità spesso abitata dalla solitudine. Sembra un ossimoro ma rende bene l’idea della mancanza, del vuoto, della perdita del senso esistenziale.

anziani stress depressione solitudineLa stessa esperienza di quell’Abramo che, disorientato, brancolava nel deserto rimpiangendo il momento in cui era partito lasciando le piccole certezze. Per accompagnare la persona e la famiglia nell’abbandonare la capanna, per alcuni sicura, e riabitare il mondo, occorre partire dalla realtà concreta perché possa esistere per tutti una fase 3, 4, 5, 6 e via dicendo, degna di poter essere vissuta. Occorre come società, Chiesa e istituzioni, costruire insieme, co-costruire, una promessa che diventi realtà e che parta dall’ascolto dei bisogni dell’uomo nella sua condizione di vulnerabilità.

Una grande sfida: lasciarsi interrogare profondamente sul senso del camminare comune, sul considerare l’altro “affar mio” e non l’ennesimo nemico che viene a risvegliare una coscienza spesso addormentata o a spodestare dalle proprie piccole acquisizioni. Lo sguardo va portato sulla fragilità come se avessimo davanti un uomo da rilanciare, da riportare alla luce dopo mesi di buio, da accompagnare a costruire un nuovo senso di sé, dell’altro e delle relazioni. Tante le emergenze emerse disegnate su vari volti, abitate da tante famiglie. E per prendersene cura occorre nominarle perché dare nome toglie dall’invisibilità, legittima, porta fuori dalle ennesime periferie esistenziali, da cui spesso ci mette in guardia Papa Francesco, per trasformarle in terra promessa. Una promessa da mantenere.

L’indigenza materiale, con l’aumento esponenziale dei pacchi cibo consegnati anche a famiglie che prima non necessitavano di assistenza, la convivenza quotidiana in spazi spesso ridotti, la nuova conflittualità nata da condizioni precarie, hanno generato un effetto detonante sulle relazioni personali e familiari, una realtà che chiede ascolto e accompagnamento con particolare attenzione e delicatezza. Per offrire un reale sostegno non possiamo dimenticare le specificità che le famiglie hanno vissuto, quali l’aumento della violenza domestica, sia fisica che psicologica, con i centri antiviolenza allertati in modo massiccio e provvidenziale; la solitudine degli anziani e dei malati, privi della normale assistenza di cui erano oggetto nella loro già difficile quotidianità; la vulnerabilità delle persone portatrici di disabilità e private dei sostegni abituali non sostituibili dai supporti virtuali e dalle piattaforme online, di cui molti si sono potuti avvalere, e che ha comportato in molti casi una regressione rispetto ai miglioramenti acquisiti nella loro vita abituale; la fragilità delle famiglie, sole ad affrontare le necessità di persone care in estrema difficoltà senza poter contare sulla rete di aiuti anche amicali sui cui fare affidamento; le situazioni di separazione, divorzio, custodia dei figli spesso privati della presenza di uno dei genitori. Uno scenario di grande fragilità che ci presenta un’umanità da ascoltare e supportare nel ritorno a una realtà segnata anche dalla criticità delle tante famiglie che hanno perso il lavoro e l’unico sostentamento.

genitori senza lavoro, disoccupati, povertà, famigliaNon ci possiamo fermare alla disamina della situazione: occorre progettare e agire. Come consulenti familiari auspichiamo di ripensare una geografia della solidarietà che parta dall’ascolto delle varie situazioni di vulnerabilità, delle persone più fragili, dei vissuti più colpiti. Ci piacerebbe pensare a un lavoro di rete tra le varie istituzioni sociali, religiose e di volontariato per poter arrivare se non a tutti, a quanti più possibile, non dimenticando che, finito il lockdown, si apre il ritorno a una vita non facile e imprevista. Sarebbe importante ragionare nell’ottica della creazione di piccole unità di crisi e d’emergenza capaci, in un lavoro congiunto, di intercettare il bisogno della persona, supportarlo e indirizzarlo alle strutture che se ne possono fare carico prima di tutto entrando nella difficoltà emotiva e nella fragilità umana. Interventi “ad personam” a partire dalla conoscenza diretta delle famiglie in una sorta di monitoraggio congiunto tra pubblico e privato.

Solo con un lavoro sinergico l’uscita dal deserto potrà rappresentare l’ingresso protetto e sostenuto in una terra promessa da costruire promuovendo la dignità di ciascuno e il senso di appartenenza comune alla stessa storia esistenziale. E, in ultima analisi, lancerei questo messaggio in bottiglia: ognuno si metta a servizio, perché nessuno è così povero da non avere nulla da donare e perché si possa realizzare la cura delle relazioni e non debbano esistere più relazioni senza cura. Questa è la terra promessa. (Alessandra Bialetti, pedagogista sociale e consulente della coppia e della famiglia)

26 giugno 2020