Un giornale in carcere per nutrire la speranza

A breve il terzo numero dell’iniziativa nata nell’area penale di Rebibbia dal laboratorio di scrittura creativa avviato da suor Emma Zordan, che ha dato vita a diversi volumi

Quando si entra nell’area penale di Rebibbia, si sa che non si uscirà tanto presto. Lì i reclusi hanno ricevuto una sentenza definitiva e sanno che dovranno misurare la loro esclusione dalla vita, dalla famiglia, dalla normalità in anni, spesso molti, talvolta per una vita intera. Quando sei in carcere il tempo non passa, e quando passa è sempre uguale. Si inserisce in questo contesto il progetto nato da una intuizione di suor Emma Zordan, di creare un laboratorio di scrittura che ha dato vita a diversi volumi, l’ultimo dei quali, “Non tutti sanno” (edito dalla Lev), ha dato il nome a una ulteriore iniziativa. Perché il bene si moltiplica sempre. Grazie all’aiuto di un giornalista in pensione, Roberto Monteforte, già vaticanista dell’Unità, che ha messo a disposizione la sua lunga esperienza per mettere in piedi un giornale carcerario.

Il giornale per ora non esce con una cadenza precisa, ma è realizzato dai detenuti sulla vita dei detenuti, e si chiama appunto “Non tutti sanno”. A breve è atteso il terzo numero. Nell’ultimo, ventiquattro pagine per raccontare i bisogni di chi è dentro, il dramma dei suicidi (84 nel 2022), gli spazi angusti, le strutture non idonee, ma anche le opportunità di rinascita, come il lavoro in carcere o la possibilità di prendere un titolo di studio, addirittura la laurea grazie a Roma Tre, che ha sviluppato un polo a Rebibbia. Monteforte racconta le difficoltà di lavorare in carcere, i tempi stretti per stare coi detenuti, i mezzi non proprio all’avanguardia, ma anche la passione che viene fuori quando si ridà la parola a chi di voce non ne ha più. La passione, si sa, è contagiosa e Roberto ormai va a Rebibbia in media due volte a settimana. «In parrocchia un’amica avvocato mi dice “compra questo libro”: era uno di quelli curati da suor Emma», ricorda il giornalista. Una folgorazione: «Mi era capitato di leggere già sull’argomento ma sempre da chi lo raccontava da fuori, invece la sorpresa fu quella di sentire la voce di chi lo viveva davvero!».

suor Emma Zordan
suor Emma Zordan (foto: Telepace)

Da lì il passo è stato breve. Monteforte si avvicina a questa suora che fa scrivere i carcerati e poco dopo iniziano a collaborare. «Suor Emma mi disse: “Noi vorremmo fare un giornale … tu sei un giornalista, fallo tu”». Tre anni passati rapidamente ma il lavoro, a causa del Covid, rallenta terribilmente. Sul perché è così importante dare delle prospettive di impegno e di crescita a chi è in carcere, magari per tempi lunghi, Roberto è lapidario: «Il tempo recluso vuoto è un tempo morto, perché uccide la speranza ». Un tempo sprecato è un aggravio di pena a tutti gli effetti, e come racconta il giornalista, molto spesso il tempo del carcerato è un tempo non rispettato dalle istituzioni: attese infinite, rinvii, educatori che mancano, agenti sotto organico. Tutti elementi che contribuiscono a rendere le giornate più faticose che mai perché identiche e apparentemente senza un senso. Il contrario del dettato costituzionale che vorrebbe che la pena fosse riabilitativa. «Fare un errore, cadere, è una possibilità che incontriamo tutti nella vita», dice ancora Monteforte.

Suor Emma ricorda il suo primo ingresso nel mondo carcerario, nel 2014. «Credevo che avrei incontrato delle belve» e invece, spiega, ha trovato persone «che hanno sì bisogno di ascolto, che spesso fanno percorsi personali incredibili, ma anche capaci di una pazienza degna di Giobbe e di grande solidarietà». Ora confida che «andare da loro ogni settimana per me è come andare a casa, ne ho bisogno». (Lucandrea Massaro)

30 maggio 2023