Un gesto di comunione e di corresponsabilità

Settembre 1978, le offerte raccolte dalla diocesi consegnate a Giovanni Paolo I per una nuova chiesa a Castel Giubileo

La diocesi di Roma ha consegnato al Papa, per le mani del Cardinale Vicario, una offerta per la costruzione della chiesa parrocchiale nella borgata di Castel Giubileo. è stato il gesto che ha suggellato il momento solenne in cui il Vescovo di Roma si è unito ufficialmente al suo popolo, concelebrando la S. Messa con i Vescovi incaricati del servizio pastorale e ricevendo l’obbedienza dei Parroci, nella sua Cattedrale di S. Giovanni in Laterano.

Quale il significato di questo gesto? Prima di tutto è un gesto di comunione. è disposizione di Dio che il bisogno di essere uniti a Lui trovi, nella fraterna solidarietà, un mezzo per essere soddisfatto. La comunione con i fratelli, soprattutto i più poveri, diventa un segno della comunione con Dio. Questa intuizione si farà sempre più chiara con il progredire della Rivelazione. Già l’oggetto della predilezione di Jahvè è la comunità di Israele, e ogni singolo membro lo è in quanto si trova ad essere parte attivamente costitutiva di tale comunità. Al di fuori di essa perde ogni diritto di familiarità con il suo Dio. Per questo la legge che codifica il patto dell’alleanza propone una serie di precetti riguardanti i rapporti con i fratelli e associa al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo.

Nel Nuovo Testamento poi, la «koinonia» caratterizza la nuova economia della salvezza inauguratasi con la Incarnazione del Verbo. Il Verbo incarnato, Gesù Cristo, è il grande sacramento nel quale si realizza la perfetta comunione tra Dio e gli uomini, e conseguentemente degli uomini tra loro: comunione in senso verticale e comunione in senso orizzontale. Quando Gesù raccomanda agli apostoli l’amore reciproco, quale fonte di comunione, non fa altro che raccomandare di estendere e di concretizzare sul piano dell’umana fraternità e solidarietà la comunione realizzata con lui e con il Padre. Egli pone, anzi, come prova, come segno di unione con Dio l’unione realizzata con i fratelli, attraverso segni concreti di condivisione e di partecipazione.

Il provvedere a donare un luogo di culto ai fratelli più sfortunati, da parte di quei cristiani che già possiedono e usano un edificio così essenziale, rientra nella logica di questa prova, di questo segno: l’amore di Dio che si fa servizio, che si fa Chiesa. Qualcuno potrebbe obiettare che non è certo la chiesa-edificio oggi un segno di comunione e che anzi più la chiesa si libera dalle strutture e dagli «insediamenti» più diventa «koinonia».

Ma proprio perché anche la chiesa-edificio può diventare elemento di discriminazione e di contrapposizione tra cristiani ricchi e cristiani poveri, tra quartieri borghesi proletari, con chiese belle, accoglienti, monumentali e chiese disadorne e spoglie, occorre fare in modo che tutti i membri della comunità diocesana abbiano la casa del Signore a propria misura dove integrare e armonizzare la vita sociale e civica con la vita di fede. Come possiamo celebrare l’eucarestia, che è il sacramento per eccellenza della comunione ecclesiale, nelle nostre chiese, con ordine, con lenità e con godimento spirituale, se tanti altri nostri fratelli non hanno il minimo necessario per una celebrazione degna di questo nome?

È in secondo luogo un gesto di corresponsabilità. Purtroppo è ancora assai diffuso, anche tra il clero, un sentimento individualista e monopolizzante di «gestione» della vita ecclesiale. Le responsabilità si esauriscono e si polverizzano ai confini territoriali della propria Parrocchia come se fosse una nomade; gli interventi pastorali non valicano i problemi spirituali della propria sensibilità e della limitata conoscenza dei propri giudizi, come se al di là del proprio campanile non ci fosse altro che deserto e terra incolta o altri popoli di chissà quale colore.

Il gesto di ieri al Papa deve diventare per tutti una presa di coscienza matura e meditata della realtà diocesana che sola può realizzare la «chiesa locale». Il rinunciare ad una cifra, grossa o modesta, del proprio bilancio annuale, per una spesa da non gestire con criteri «aziendali» o privatistici, ma più largamente e autenticamente ecclesiale, crea corresponsabilità e apre i fedeli a cogliere la realtà della propria appartenenza alla Chiesa di Dio con maggiore aderenza e più acuita incisività, nella capacità di farsi carico anche e soprattutto dei problemi più scottanti e più indilazionabili dell’intera comunità.

La corresponsabilità si costruisce così, non con vuote enunciazioni di principio, non con discorsi di cartello che codificano elegantemente degli alibi per affermare che il proprio sono a tutti i costi i problemi più urgenti, ma con questa capacità sempre nuova di individuazione dei bisogni dei fratelli là dove si manifestano e dove attendono che qualcuno li accolga e li risolva. Non è più il tempo delle «deleghe» o dei «mandati in bianco»: dobbiamo tutti farci carico, ciascuno come può, della vita della nostra comunità diocesana, con senso di apertura e di generosità. Questo è il vero regalo che attende il Papa da noi. (Alessandro Plotti)

24 settembre 1978