«Troppe cose a cui pensare», Bellow e la fine del sogno americano

Nei saggi pubblicati da Big Sur le pagine raccolte da Philip Roth che rievocano “Seize the Day” sottolineandone il ruolo di spartiacque fra i testi d’esordio e i capolavori maggiori

Fra i libri cruciali del Novecento, Seize the Day di Saul Bellow, uscito per la prima volta nel 1956 e tradotto in italiano come La resa dei conti nella classica versione einaudiana di Floriana Bossi, resta una stella fissa che continua a brillare di luce propria riassumendo in sé tutte le caratteristiche più significative del grande scrittore americano scomparso tredici anni fa. Nei suoi saggi letterari recentemente pubblicati da Big Sur a cura di Luca Briasco, Troppe cose a cui pensare (pp. 356, 20 euro), ci sono alcune pagine davvero spassose, raccolte da Philip Roth, che rievocano proprio questa stringata novella di taglio classico, le tipiche centocinquanta pagine, sottolineandone il ruolo di spartiacque fra i testi d’esordio e i capolavori maggiori, da Herzog al Dono di Humboldt.

È la storia di un figlio, Tommy Wilhelm,
quarantenne scioperato, separato dalla moglie abbastanza avida da farsi scudo dei suoi due marmocchi per succhiare tutto il possibile all’ex marito, a rapporto col padre, il dottor Adler, ormai anziano e molto riverito, coi remi da tempo tirati in barca, che desidera soltanto godersi gli ultimi scampoli della sua tranquilla esistenza fra massaggi e lunghe nuotate in piscina. Tale obiettivo sarebbe assolutamente realizzabile, se non ci fosse appunto Tommy, insieme alla sorella, un’altra creatura insoddisfatta, alle prese con ambizioni artistiche sbagliate, i quali gli mettono i bastoni fra le ruote. Soprattutto il maschio, attore fallito e altrettanto improbabile finanziere d’assalto, non esita a chiedergli i denari secondo lui necessari a pagare certi debiti.

Dopo essersi preso i pesci in faccia dal vecchio dottore, non gli resterà che andarsi a consolare da Tamkin, un’eccentrica figura di psicanalista economista, mezzo filosofo e mezzo filibustiere, che da una parte lo illude, dall’altra lo bastona, lasciandolo alla fine da solo con se stesso a singhiozzare al funerale di uno sconosciuto. Diverse sono le scene che restano incise nella memoria del lettore: tutte ambientate nel lussuoso albergo di New York dove si è stabilito Adler (una meravigliosa trasfigurazione dell’hotel Ansonia, nell’Upper West Side di Manhattan, con vista sull’Hudson, come rivelò lo stesso Bellow a Philip Roth), lasciano l’amaro in bocca, ma comunicano una straordinaria energia.

Ciò dipende dal fatto che mentre assistiamo, dal di dentro, allo sfacelo interiore dell’ancora giovane protagonista, ci rendiamo conto, sulla postazione elevata che lo scrittore ha predisposto per noi, di tutti i suoi passi falsi, gli stessi che lui non è riuscito a prevedere. Il testo è composto in terza persona, ma frequenti sono le incursioni della prima: Tommy parla e sembra sbattere la testa contro il muro. Saul Bellow, che aveva quarantadue anni quando pubblicò Seize the Day, mostra una notevole maestria in questi rapidi passaggi grazie ai quali si garantisce una stupenda libertà operativa.

Qual è lo sbaglio di Tommy? Non sapersi accontentare. Il che lo porta a compiere continui errori di valutazione: in questo senso l’opera trova anche una dimensione profondamente politica. Nel momento in cui ci consegna una radiografia impietosa dello smarrimento esistenziale di Tommy, segnala anche, attraverso di lui, la fine del sogno americano la cui interruzione, a ben riflettere, rende oggi particolarmente inquieti tutti noi.

 

15 gennaio 2018