“Tito e gli alieni”, fantasy poetico sulla famiglia e sul futuro

Nella pellicola di Paola Randi, realtà e sogno, finzione e problemi quotidiani, utopia e speranza raccontati con un equilibrio narrativo sorprendente. In un crescendo che sfiora la bellezza del poema

Il primo personaggio con cui facciamo conoscenza è senza nome, lo chiamano “il professore” e, da quando ha perso la moglie, vive isolato dal mondo nel deserto del Nevada accanto all’Area 51. Avrebbe il compito di lavorare a un progetto segreto per il governo degli Stati Uniti però trascorre le giornate su un divano ad ascoltare il suono dello Spazio in attesa di chissà quali segnali importanti. Si capisce che l’uomo conduce una vita isolata, lontana da ogni contatto con la civiltà, rappresentata per lui solo da Stella, una ragazza che organizza matrimoni per coppie che vogliono provare l’emozione di incontrare gli alieni. Su questo scenario decisamente insolito e imprevedibile arriva una notizia inattesa: a Napoli suo fratello Fidel sta morendo e gli anticipa che i due figli, Anita e Tito, andranno a vivere con lui negli States.

Da questo prologo, pieno di inciampi e difficoltà, prende il via “Tito e gli alieni”, uscito nelle sale giovedì 7 giugno, che batte i terreni poco frequentati della fantascienza e della fiaba. Che il fantasy sia un genere abbastanza trascurato dal cinema italiano è affermazione facile e forse scontata. Che, al di là di facili riferimenti ad alieni e mostri spaziali, esista la possibilità di affrontare l’argomento con angolature e prospettive nuove lo dimostra proprio questo film che mette insieme realtà e sogno, finzione e problemi quotidiani, utopia e speranza con un equilibrio narrativo mirabile e sorprendente. Merito va alla sceneggiatura di Paola Randi, che ha dichiarato di aver sopportato perdite importanti in seguito alle quali si è posta la domanda: come facciamo ad affrontare la paura della morte e del dolore? Un interrogativo forte che la regista Randi ha affidato ad una storia fatta di luoghi veri e insieme fantastici, di sentimenti autentici e altri immaginati, in un alternarsi di scossoni emotivi in grado di cambiare il carattere delle persone.

Così tra il professore, i due nipotini “trovati”, l’inafferrabile Stella e il desolato paesaggio circostante scatta una coraggiosa gara fatta di rinunce, di scommesse, di provocazioni: in primo luogo forse la necessità da parte del professore di “inventarsi” il ruolo di padre per due ragazzini/adolescenti (16 anni lei, 7 anni lui), un ruolo costruito giorno per giorno di fronte a necessità e bisogni imprevedibili. «Mi sono immaginata – dice ancora Randi – la realtà vista con gli occhi di qualcuno che aveva perso la memoria, una realtà ricomposta con risorse straordinarie di coraggio, creatività, umorismo e leggerezza». Nelle pieghe del racconto, nei suoi suggestivi scarti narrativi, si fa strada la sensazione che la vicenda, per quanto piccola, abitata da gente sospesa, sperduta in luoghi immensi, finisca con il crescere fino a sfiorare la bellezza del poema, la rabbia e la capacità di toccare i temi di un’umanità disponibile a riscattarsi e a non cedere al peggio dell’esistente. Si tratta di un film anomalo, attraversato da una poesia nascosta e malinconica, ben interpretato e ben realizzato. Cosicché sembra perfino ingeneroso definirlo un film “piccolo”. L’idea di fuggire, di abitare altri mondi non è forse da sempre una delle molle che ispirano letteratura e cinema?

11 giugno 2018