Teju Cole, un racconto sferzante sulla Nigeria

Con lo sguardo del viaggiatore, lucido e febbrile, l’autore si mette alla ricerca delle proprie radici, nell’apparente impossibilità di trovare una via d’accesso per tentare di comprendere il Continente Nero. Come in un reportage

Teju Cole, nato nel 1975 in Nigeria da madre tedesca e padre africano, a 17 anni si trasferì a New York dove scoprì la sua vocazione di scrittore. Nel 2013 si segnalò con Città aperta, romanzo autobiografico di notevole fascino narrativo: una prosa vagabonda com’erano le lunghe passeggiate in cui s’impegnava il giovane protagonista, fra Camus, Stendhal e Sebald. Il titolo stesso alludeva al superamento delle frontiere: geografiche, interiori e letterarie. Ma di questa condizione l’autore non mostrava di gioire. Al contrario: indicando la matrice tragica dell’esule, prendeva le distanze dalla cultura novecentesca. Faceva capire al lettore di essere diventato adulto proprio dopo essersi reso conto di non poter rinunciare al centro che molti suoi maestri avevano invece considerato come un peso.

Sei anni prima Cole aveva pubblicato il diario del proprio ritorno a Lagos, Ogni giorno è per il ladro (Einaudi, pp.137, 16 euro) che noi ora leggiamo quasi con l’intenzione di risalire all’origine del suo rovello esistenziale. E abbiamo l’impressione di trovare una speciale conferma retroattiva. Non si ritorna mai nello stesso posto da cui siamo partiti per la semplice ragione che il tempo stravolge noi e gli spazi dove abbiamo vissuto: sembra essere questo il senso del libro d’esordio di Teju Cole. Lo sguardo del viaggiatore, lucido e febbrile, riconosce a fatica le proprie radici: un crocevia polveroso dove la corruzione regna sovrana e per uno come lui, straniero in patria, non c’è speranza di collocazione, fatta eccezione forse per l’unica pagina meno disperata e malinconica delle altre: il ritratto scanzonato della simpatica nipotina, in grado di superare ogni barriera nel rapporto d’amicizia col giovane zio. Il quale non fa nulla per nascondere le ferite interiori che lo consumano: il difficile colloquio con la madre, il fantasma del padre deceduto, l’apparente impossibilità di trovare una via d’accesso per tentare di comprendere il Continente Nero.

Ovunque posi lo sguardo (anche fotografico, dal momento che il volume comprende diciannove istantanee scattate dallo stesso autore), Cole non vede che rovine: la sua prima ragazza con una mano deturpata da un incidente di cucina e una realtà domestica precocemente degradata; l’amico medico che ha deciso di restare nel Paese accettando uno stipendio da fame; i parenti, costretti a vivere barricati dentro le mura di casa per evitare la violenza delle bande di teppisti. Se New York avesse un fratello randagio che vive sotto i ponti, dovrebbe cercarlo proprio qui, nella metropoli del petrolio e della disperazione. Ne deriva un racconto sferzante che potrebbe essere letto alla maniera di uno splendido reportage sulla Nigeria del Terzo Millennio, se lo spirito del vecchio romanzo di formazione non filtrasse deciso nel dettato di questo scrittore, la cui maggiore dote sembra essere quella di accettare il limite che l’esperienza gli suggerisce.

30 settembre 2014