Svetlana Aleksievic, la guerra vista dalle donne

Le protagoniste del secondo conflitto mondiale si passano il testimone del ricordo, creando una catena in cui convivono giudizio storico e pietà

Le protagoniste arruolate nel secondo conflitto mondiale si passano il testimone del ricordo, creando una catena in cui convivono giudizio storico e pietà umana

La differenza fra un evento e la cronaca in cui lo recepiamo, televisione, giornali, romanzi, non può essere negata: si tratta di uno scarto, a volte insostenibile, che tuttavia viene da lontano e sul quale i filosofi hanno sempre indagato. È in fondo questo il vero tema della letteratura moderna che spingeva Emile Zola a prendere appunti nei mercati parigini prima di comporre la sua grande opera, Giovanni Verga a tendere l’orecchio alle chiacchiere sparse nei “viottoli dei campi” e James Joyce a sprofondare come un palombaro protetto dallo scafandro nell’inconscio di Leopold Bloom. I romanzi-documento di Svetlana Aleksievic, nata in Ucraina nel 1948, premio Nobel per la Letteratura 2015, ripartono proprio da lì: quando raccontano le vicende dei reduci di guerra in Afghanistan (Ragazzi di zinco), s’interrogano sui suicidi dopo il crollo dell’Urss (Incantati dalla morte) o affrontano le tragedie nucleari (Preghiera per Cernobyl’), lo fanno in un coro di voci che l’autrice ha incastrato nella sua struttura narrativa: una vera e propria macchina della memoria.

Così accade anche in La guerra non ha un volto di donna (Bompiani, pp. 445, 20 euro, traduzione di Sergio Rapetti), dove a parlare sono le protagoniste sovietiche della Seconda guerra mondiale che, dopo l’attacco nazista del 1941, si arruolarono in massa affrontando, insieme agli uomini, i rischi mortali e le immani fatiche del conflitto, uno dei più sanguinari della storia. Davanti agli occhi del lettore, in una galleria di prevedibili orrori ma anche di sorprendenti dolcezze, sfilano infermiere, carriste, assaltatrici, telegrafiste, tiratrici, istruttrici sanitarie, soldatesse e comandi superiori, fanciulle ancora adolescenti e signore già madri di famiglia. La scrittrice le va a trovare nei loro casermoni dell’edilizia post-comunista quando sono ormai anziane, magari vicino al tinello e alla povera tavola: non tutte si saranno aperte subito alla confidenza, quindi dobbiamo immaginare anche numerosi colloqui preliminari per favorire lo scambio, ma nel momento in cui iniziano a raccontare le nonne-eroine con le medaglie al valore appuntate sulla giacca e gli encomi solenni esposti sul comodino, ti spiegano tutto: l’esaltazione dei primi mesi, la ferocia belluina degli scontri, la retorica delle celebrazioni successive. Svetlana Aleksievic, in quest’opera di naturalismo esistenziale, dove la forza della testimonianza s’intreccia allo spirito lungimirante di chi la raccoglie, ha compiuto uno straordinario lavoro di collazione. Pagina dopo pagina, il testo assume uno speciale rilievo stilistico, come se le reduci si passassero il testimone del ricordo creando una catena vitale, una piattaforma comune dove convivono il giudizio storico e la pietà umana: il primo teso a distinguere e classificare, il secondo capace di riunire gli avversari. Mario Rigoni Stern non ha potuto leggere questo libro, ma sono certo che dalle sue alture nevose lo abbia benedetto.

29 marzo 2016