«Sul tradimento», il testo di Margalit e la crisi della responsabilità

Un libro sorprendente, anche per l’affabilità narrativa, talvolta con aperture persino autobiografiche. Approfondisce la riflessione: dall’adulterio allo spionaggio, dal collaborazionismo all’apostasia

Siamo stati abituati a pensare al “tradimento”, inteso quale categoria universale, come un’azione infamante: il gesto disperato e lacerante di Giuda, che finisce nel campo del sangue, o anche quello di Pietro, che invece si ravvede e diventa addirittura la pietra d’angolo. Avishai Margalit (1939, nella foto), uno dei più importanti filosofi israeliani, in un libro per molti versi sorprendente, anche per una certa affabilità narrativa talvolta con aperture persino autobiografiche, “Sul tradimento” (Einaudi, traduzione di Barbara Del Mercato e Dario Ferrari, pp. 267, 21 euro), sposta il tiro e approfondisce la riflessione indicando le varie forme e accezioni di questo concetto nelle sue innumerevoli ricadute politiche e culturali: dall’adulterio allo spionaggio, dal collaborazionismo all’apostasia.

Si tratta di un’analisi, peraltro suffragata da un ammirevole e cospicuo sostegno di citazioni storico–letterarie, compiuta a ciglio asciutto e a ingranaggi scoperti, come se la nostra natura di individui fosse stata posta sotto un vetrino di microscopio e sezionata di conseguenza con sguardo implacabilmente scientifico. Partendo da una distinzione preliminare fra morale (che illustra i nostri rapporti con gli sconosciuti) ed etica (la griglia che sostiene la rete familiare e sociale), sulla quale siamo giocoforza chiamati a convenire, l’autore colloca il tradimento nella sfera dei cosiddetti “rapporti forti” indicando, sin dall’inizio, la rottura degli equilibri provocata da questo comportamento che oggi viene percepito in modo meno drammatico rispetto al passato, forse perché, complice il nuovo modello di sviluppo economico globale, sta entrando in crisi il fondamento della responsabilità e ci si illude di poter vivere come se ciò non fosse necessario.

Ma è proprio di questo che non potremmo al contrario mai fare a meno: rinunciare a comprendere la matrice del patto sociale, la convenzione giuridica che ci permette di stare insieme, significherebbe abbandonarci al nichilismo. Intendiamoci: Avishai non è così esplicito, lui si limita a descrivere quello che altri definirebbe il male umano nelle sue molteplici evidenze. Senonché, alla conclusione del libro, nel momento in cui ammette, con allusione sartriana, che non si può fare politica senza sporcarsi le mani, sembra quasi costretto a convergere verso una risoluzione fino allora evitata: «È possibile governare senza segreti? Se la risposta è negativa e i segreti sono l’essenza di qualsiasi ordine politico, allora la possibilità di tradire i segreti è endemica alla gestione stessa della politica: senza segreti, e quindi senza la possibilità del tradimento, non esiste politica». Non si può dunque governare nella trasparenza: «Il tradimento e l’ipocrisia sono sottoprodotti inevitabili della vita civilizzata, come la minzione è un sottoprodotto inevitabile dell’atto del bere».

Fosse tutto qui, sarebbe una riedizione aggiornata dell’amara persuasione che Nicolò Machiavelli maturò secoli fa a Sant’Andrea in Percussina ragionando su volpi e leoni. Ma forse gli spunti più interessanti che Avishai lascia dietro di sé sono relativi alla nozione di “fraternité” nel suo sostrato rivoluzionario francese, là dove è nata la democrazia moderna: un sentimento disancorato dal nodo etico della “fratellanza”, quindi meno vulnerabile, vorrei poter dire, perché più disincantato, non troppo esigente, a prova di traditore.

 

21 maggio 2018