Suicidio assistito, Paglia: «No all’abbandono di persone fragili»
Il presidente della Pontificia Accademia per la vita interviene sulla decisione della Corte costituzionale tedesca di riconoscerlo come diritto per i cittadini
È data 26 febbraio la sentenza della Corte costituzionale tedesca che riconosce il “diritto” al suicidio per i cittadini della Germania, malati e non, aprendo di fatto la porta al suicidio assistito. Sulla decisione è intervenuta la Conferenza episcopale tedesca e, dall’Italia, anche il presidente della Pontificia Accademia per la vita Vincenzo Paglia, che proprio a quell’intervento fa riferimento. «Condivido quanto opportunamente già espresso dai presuli tedeschi – le parole dell’arcivescovo -. L’ossequio alla autodeterminazione del paziente, in nome della quale si accetta l’intenzionalità suicidiaria, a cui poi si offrono i mezzi di esecuzione, ancora una volta diviene la maschera che nasconde un’impostazione individualista, che abbandona le persone più fragili alla loro sofferenza e alle pressioni di una società sempre più esigente sul piano delle prestazioni e della qualità di vita richieste ai suoi appartenenti».
Per Paglia, «è dovere di ciascuno di noi “occuparsi” del fratello, anzitutto riconoscendo la preziosità della sua esistenza, che nessuna circostanza di vita, per quanto faticosa, può mai inficiare. Ancora di più forte, però – prosegue -, è il dovere di uno Stato di proteggere sempre i suoi cittadini, soprattutto coloro che soffrono una particolare fragilità, per motivi di natura fisica, psichica, o sociale». Di qui l’auspicio che «tali orientamenti giurisprudenziali non trovino conferma ma che gli sviluppi legislativi in questo ambito muovano invece in direzione di una più decisa protezione dei soggetti deboli, tra i quali rientrano certamente tutti coloro che, in un qualche momento della loro vita, pensano al suicidio come soluzione al loro disagio, o alla loro sofferenza».
Una realtà, quella della sofferenza umana, «a volte atroce e capace di condurre la persona sulla soglia della disperazione», che l’arcivescovo non nega. «Sappiamo però – è l’obiezione – che in queste situazioni possiamo e dobbiamo offrire una soluzione migliore e veramente degna della humana communitas. L’esperienza consolidata e ampiamente diffusa delle cure palliative – prosegue – si mostra con estrema chiarezza che il “prendersi cura” è risposta sempre efficace, che anche quando non cambia il destino umano e l’evoluzione di una malattia, sempre assicura sollievo, conforto e consolazione».
28 febbraio 2020