Sudan: via libera alla tregua umanitaria di 24 ore

Il comandante delle Forze di supporto rapido Hemetti ha annunciato su Facebook un cessate il fuoco temporaneo per aprire strade sicure per i civili e per l’evacuazione dei feriti. Il bilancio ufficiale degli scontri: 180 morti e 1.8000 feriti. Le origini della guerra civile

Quanto sta avvenendo da sabato scorso, 15 aprile, in Sudan è inquietante. Alla prova dei fatti si è scatenata una vera e propria guerra civile. Mentre scriviamo il comandante delle Forze di supporto rapido (Rsf), il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemetti”, ha annunciato con un messaggio diramato su Facebook di aver accettato una «proposta di tregua di ventiquattro ore» a fini umanitari. Nel testo, attribuibile a Hemetti, si legge che «sulla base dei contatti diretti con Antony Blinken, Segretario di Stato degli Stati Uniti, e degli sforzi dei Paesi fratelli e amici che hanno effettuato comunicazioni simili, durante le quali abbiamo chiesto un cessate il fuoco temporaneo al fine di aprire strade sicure per l’attraversamento dei civili e l’evacuazione dei feriti, annunciamo l’approvazione della proposta di tregua di ventiquattro ore».

Il bilancio ufficiale degli scontri tra l’esercito regolare e i paramilitari delle Rsf, che ha come epicentro la capitale Khartoum, ufficialmente ha causato 180 morti e 1.800 feriti tra civili e militari. Numeri, questi, che comunque vanno presi col beneficio d’inventario, non foss’altro perché il monitoraggio rispetto a quanto sta avvenendo sul campo risulta essere molto difficile a causa dei combattimenti. Viene spontaneo domandarsi come mai la situazione sia precipitata fino a questo punto, tanto da scatenare una violenza senza quartiere. A tale proposito occorre tenere presente il contesto politico-istituzionale sudanese almeno a partire dal 5 dicembre, scorso quando i militari al potere e una cinquantina di leader di partiti politici, di associazioni professionali e di organizzazioni della società civile – molti riuniti nel cartello delle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc) – firmarono un accordo politico preliminare che avrebbe dovuto costituire il primo passo verso l’uscita dalla crisi seguita al colpo di Stato del 25 ottobre 2021.

Furono in molti nei circoli della diplomazia internazionale a sperare che iniziasse l’agognato cambiamento. In effetti, almeno apparentemente, d’allora si mise in moto la macchina negoziale per un accordo politico finalizzato alla formazione di un governo a guida civile, che avrebbe dovuto essere firmato in due fasi: il 3 e l’11 aprile. L’obiettivo era quello di portare finalmente in porto la faticosa transizione democratica, iniziata nell’aprile del 2019, quando la mobilitazione popolare determinò la caduta del presidente Omar Hassan El-Bashir e l’implosione del regime islamista del Partito del congresso nazionale (National congress party – Ncp). Purtroppo, nel frattempo, il braccio di ferro tra il presidente del Consiglio supremo di transizione, il generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, e il suo vice Hemetti, comandante delle Rsf, è sfociato in un vero e proprio scontro.

Come evidenziato dall’organizzazione sudanese Sudan policy and transparency tracker, che si occupa di monitorare le politiche e la trasparenza delle istituzioni nazionali, il motivo per cui si è giunti al confronto militare è rappresentato dalla possibile unificazione tra esercito regolare e Rsf. Un’operazione fortemente osteggiata dal generale Mohamed Hamdan Dagalo. Con queste premesse, ora come ora, ipotizzare per un prossimo futuro un governo a guida civile, capace di contenere lo strapotere dei militari (poco importa se regolari o delle Rsf) è difficile, anche perché sono molti gli interessi in gioco legati al business minerario. C’è inoltre da considerare che vasti settori della società civile sudanese, riunitisi in comitati di resistenza, si sono sempre detti contrari a qualsiasi accordo con la giunta militare presieduta da al-Burhan, nella fattispecie a quello del 5 dicembre scorso. A loro parere, infatti, legittimerebbe il colpo di Stato dell’ottobre 2021 che ha bloccato il processo di transizione verso la democrazia e ha aggravato la situazione economica del paese. Posizioni simili hanno anche alcuni partiti sudanesi, come il partito comunista e diversi movimenti popolari, parecchi usciti dalle Ffc per formare un nuovo raggruppamento, le Ffc -Db (Forces for freedom and change – Democratic block). Contrari all’accordo anche i movimenti armati darfuriani che fanno parte della giunta militare ora al potere, in posizioni di rilievo.

Detto questo, incerto è il posizionamento della comunità internazionale. Se da una parte, formalmente, il consesso delle nazioni invoca la cessazione delle ostilità, si registrano infiltrazioni di miliziani Janjaweed, (letteralmente “Diavoli a cavallo”), legati a Hemetti, gli stessi che in questi anni hanno compiuto stragi nel Darfur. Si tratta di predoni appartenenti alla famiglia estesa dei Baggara, insediata nel Sudan Occidentale e nel Ciad Orientale. Il sostantivo Baggara comprende in effetti vari gruppi etnici semi-nomadi quali ad esempio gli Humr/Messiria, i Rizaygat, i Shuwia, i Hawazma, i Ta’isha, e i Habbaniya. Questi gruppi armati, secondo autorevoli fonti della società civile, sarebbero foraggiati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Come se non bastasse, è importante sottolineare che in Sudan si è consolidata la presenza dei contractor della compagnia russa Wagner i quali operano in diversi settori del Paese, dal nord est, dove sono presenti alcune miniere d’oro, alla regione occidentale del Darfur. Sul fatto che Hemetti possa contare sull’aiuto di questi mercenari, a Khartoum circolano le voci più disparate. È certo che egli intrattiene ottimi rapporti con Mosca e che vi è una proficua collaborazione tra Wagner e le Rsf nelle zone minerarie aurifere. Ad esempio, la Meroe Gold, società sussidiaria nel settore estrattivo della Wagner, operativa in Sudan, è stata sanzionata recentemente dal Consiglio dell’Unione europea in quanto le sue attività mettono in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Di fronte a questo scenario è difficile fare previsioni. Una cosa è certa: ancora una volta in Sudan il desiderio di democrazia e partecipazione della gente viene soffocato con la forza delle armi.

18 aprile 2023