“Sport senza frontiere”, dal 2009 per i ragazzi di Roma

L’associazione permette ai giovani di famiglie con problemi economici o psicologici di praticare varie discipline. Tra loro JJ, piccolo campione di pentathlon

L’associazione permette ai giovani di famiglie con problemi economici o psicologici di praticare varie discipline. Tra loro JJ, piccolo campione di pentathlon

JJ ha dodici anni ed è un piccolo campione di pentathlon. La sua specialità è la corsa: da quando aveva sei anni corre e vince medaglie nel campo di atletica del Cus di Roma. Un sogno che non avrebbe potuto realizzare senza “Sport Senza Frontiere”, una onlus che permette a bambini e ragazzi con problemi economici, fisici o psicologici di fare attività fisica gratuitamente. «Tutto è iniziato nel 2009 – racconta il presidente Alessandro Tappa -: abbiamo fatto un’asta di beneficenza e con i proventi abbiamo deciso di offrire dei corsi ad alcuni bambini che ci aveva segnalato la Comunità di Sant’Egidio. Da allora non abbiamo più smesso».

Fare sport, infatti, è un lusso per pochi: mediamente un corso di calcio ha un costo di 600 euro all’anno, uno di nuoto va da un minimo di 400 a un massimo di 1.000 euro annui. Una spesa che non tutte le famiglie possono permettersi. Col tempo 51 società sportive romane hanno deciso di aderire al progetto. «I servizi sociali, le case famiglia o le scuole ci contattano e noi portiamo i ragazzi nei centri sportivi e li seguiamo passo passo. Abbiamo un team di psicologi, allenatori, mediatori culturali e perfino un autista con un pulmino che li accompagna. Facciamo delle visite mediche e diamo loro tutto l’occorrente: dal costume per il nuoto agli scarpini da calcio. Oggi siamo presenti anche a Milano e a Catania», continua Tappa.

Lo sport non ha cambiato solo la vita di JJ ma anche quella della sua famiglia. «Fa pentathlon insieme ai fratelli e i suoi cugini – racconta la mamma apolide Manal -. Sono molto contenta perché hanno capito che se si prendono un impegno devono portarlo a termine, sanno che non si devono arrendere alle prime difficoltà. Inoltre, JJ ha avuto dei miglioramenti a scuola, è più disciplinato e non ha problemi a relazionarsi con bambini diversi da lui».

Non tutte le società sportive, però, accolgono atleti nati nel nostro Paese da genitori stranieri. Attualmente è in attesa di essere approvata in Senato una legge che permette ai minori che non sono ancora cittadini italiani di poter essere tesserati nelle federazioni nazionali. E in Italia i ragazzi di seconda generazione che praticano sport non sono pochi: il Coni, comitato olimpico nazionale, non ha un elenco completo ma solo nella Federazione Italiana Giuoco Calcio nel 2012 erano 30mila, in quella di atletica leggera 826. «Mio figlio parte con uno svantaggio rispetto agli altri bambini perché è di origine straniera, quindi dovrà faticare il doppio per dimostrare che l’apparenza ad uno Stato non è una cosa che si acquisisce, ma che si possiede dalla nascita: JJ si sente italiano. La burocrazia non può essere un ostacolo e non ci spaventa, se un ragazzo vuole fare l’atleta o il calciatore deve farlo. L’integrazione passa anche per queste vie: lo sport spezza molti tabù e molte barriere», dice sicura Manal.

Tra i ragazzi che fanno attività fisica grazie a Sport senza Frontiere c’è anche Sasho, un bambino rom che vive con la sua famiglia in un centro di accoglienza della Capitale. Da tre anni è diventato un campione di rugby, come spiega la psicologa Sara Di Michele. «I genitori degli altri compagni lo vanno a prendere agli allenamenti, hanno creato una rete solidale e contribuiscono alle spese per le trasferte fuori Roma: si sono accorti che prima di essere rom o italiano, Sasho è semplicemente una persona».

Il nuoto è lo sport scelto da Adam (nome di fantasia). «Ha viaggiato sui barconi con la famiglia per venire in Italia. Ora ha cinque anni e vive in un centro d’accoglienza. La mamma ci ha chiesto di insegnargli a nuotare: voleva che suo figlio potesse vedere l’acqua come un gioco e non come un pericolo», continua Di Michele.

Alessia, invece, è la mamma di Mattia, un bambino di sei anni operato al cuore e che ha problemi relazionali. «La psicologa della scuola ci ha consigliato di fargli fare sport in una realtà diversa, dove non conta vincere ma divertirsi e partecipare. Qui mio figlio ha iniziato a dare i primi abbracci, ad essere meno aggressivo, ad avere più rispetto per gli altri e si è affezionato molto all’allenatore. Lo vedo rinato», racconta Alessia. (Maria Gabriella Lanza)

27 maggio 2015