Soldati Usa schierati al confine col Messico

Il presidente Trump ha annunciato l’invio di 5.200 militari al confine sud del Paese, per arginare la carovana di migranti partita dall’Honduras. L’appello dei vescovi: «Cercare asilo non è un crimine». Intanto si teme l’emergenza sanitaria

«Cercare asilo non è un crimine». I vescovi americani rispondono così alla decisione annunciata dal presidente americano Donald Trump di inviare 5.200 militari al confine sud del Paese, per arginare la carovana di migranti partita dall’Honduras, ancora lontana centinaia di miglia dal territorio statunitense. Neanche i numeri sembrano giustificare lo spiegamento di forze: i migranti infatti, secondo le agenzie Onu, si sono ridotti a 6mila, dopo che già un migliaio ha chiesto asilo in Messico. E tra quelli in marcia, 2.500 sono bambini. Si tratterebbe quindi di 2 militari per ogni adulto, disarmato, provato da settimane di cammino, spesso con figli al seguito e in fuga da Paesi sconvolti dalla violenza e dalla miseria.

L’appello dei vescovi Usa, al contrario, è per la protezione dei migranti, unitamente a una soluzione «globale e regionale» per affrontare le cause che spingono le persone a fuggire dai propri Paesi in cerca di protezione. Il messaggio congiunto scritto da monsignor Joe S. Vásquez, presidente della Commissione per le migrazioni della Conferenza episcopale, da Sean Callahan, presidente di Catholic Relief Services, e da suor Donna Markham presidente di Catholic Charities, mira a stemperare i toni sempre più accesi usati dall’amministrazione statunitense verso la carovana dei migranti honduregni. I presuli si rivolgono a tutte le persone di buona volontà, con l’obiettivo di incoraggiare alla compassione «nelle parole e nei fatti». Al contempo, esortano «tutti i governi a rispettare il diritto internazionale e le leggi nazionali esistenti che proteggono chi cerca rifugio e assicurano a chi tornerà nel Paese d’origine protezione e rimpatrio sicuri». Ancora, i firmatari del documento si dicono favorevoli a continuare gli investimenti Usa in Centro America, perché «aiuterebbero ad affrontare le cause alla base della violenza e della mancanza di opportunità». Nello stesso tempo però si chiede un approccio multilaterale al problema e «soluzioni umane che onorino lo stato di diritto e rispettino la dignità delle persone».

Nel frattempo la marcia dei migranti honduregni in terra messicana prosegue sulla rotto che passa vicino alla costa, nello stato di Oaxaca e nella diocesi di Tehuantepec. Non senza fatiche. Ne dà notizia Norma Medina, referente della Pastorale sociale Caritas della diocesi di San Cristobal de las Casas, recatasi in questi giorni in Oaxaca come volontaria. «Sono state contate 1.850 persone ferite e lesionate – riferisce -. In molti casi si tratta di ferite ai piedi, che rischiano però di infettarsi e aggravarsi con la continuazione della marcia. Ho visto una bambina in stato di incoscienza e con le convulsioni. Alcune persone restano indietro. Mancano medicinali adeguati – aggiunge -, qui c’è solo paracetamolo e penicillina ma servirebbero antibiotici. Mancano anche medici preparati, per far fronte a questa emergenza. Non va dimenticato che della carovana fanno parte 1.800 minori».

Anche padre José Leonides Oliva, incaricato della Pastorale sociale dell’arcidiocesi di Tehuantepec, parla di «un popolo stanco, cammina ormai da molto tempo, circa tre settimane. Alcuni riportano ferite – aggiunge -, altri presentavano forme di infermità già alla partenza. Il cammino però prosegue e cerchiamo di curarli, grazie a volontari dedicati solo alle donne e ai bambini, che stanno cercando di evitare loro la fatica della marcia». Non sono pochi, infatti, coloro che si prestano a fare servizio di autotrasporto. E non manca chi, tra i migranti, cerca di prendere per qualche tratto il treno.

Ieri, 30 ottobre, la carovana è giunta a Juchitán de Zaragoza, città di circa 75mila abitanti, il secondo grande centro incontrato nel territorio dell’Oaxaca. Prossima tappa sarà Jalapa del Marqués, per giungere poi a Tehunatepec. Da lì il cammino si farà, se possibile ancora più duro, perché si inizierà a salire verso l’interno del Paese, verso la città di Oaxaca, Capitale dello Stato, e successivamente nello Stato di Puebla. «La gente povera della diocesi – prosegue padre Oliva – sta rispondendo con grande affetto e premura. Si sta sviluppando una relazione di fraternità. Viviamo davvero quello che ci ha detto il Papa: la Chiesa dev’essere come un ospedale da campo».

31 ottobre 2018