Siria, l’inferno delle prigioni nelle foto di “Caesar”

Al Maxxi la mostra che raccoglie gli scatti di un ex fotografo della polizia militare di Assad. Riccardi: «Sia uno schock per la nostra coscienza»

Inaugurata al Maxxi la mostra che raccoglie gli scatti di un ex fotografo della polizia militare di Assad. Riccardi: «L’augurio è che sia uno schock per la nostra coscienza»

Gli orrori del Military Hospital 601 di Mezze, a Damasco, nella capitale della Siria sono inimmaginabili, ma “Caesar” li ha fotografati. Ieri, mercoledì 5 ottobre, si è aperta al Maxxi con un piccolo convegno la mostra delle immagini scattate da “Caesar”, pseudonimo di un ex fotografo della polizia militare del regime di Bashar Al Assad. Nel 2013, Caesar è riuscito a scappare da questa follia, ma ha portato con sé i suoi scatti: 55mila foto delle torture e degli omicidi commessi nelle prigioni e nei centri di detenzione del regime, che grazie a lui l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha potuto analizzare producendo il rapporto “Se i morti potessero parlare. Uccisioni e torture di massa nelle strutture di detenzione in Siria”.

Corpi dilaniati, volti irriconoscibili, le foto di “Caesar” hanno fatto il giro del mondo: dal Palazzo di Vetro dell’Onu a New York, al Congresso Usa, al Parlamento Europeo di Strasburgo. 27 di questi scatti adesso sono in mostra a Roma per volere della Federazione nazionale stampa italiana, Amnesty International, UniMed (Coordinamento delle Università del Mediterraneo), Focsiv, Articolo 21, Un ponte per e Cestim. Un’iniziativa che, prima che venisse scelto il museo, gli organizzatori avrebbero voluto alle Camere, ma senza successo. Le presenze politiche comunque ci sono state: oltre all’ambasciatore emerito degli Stati Uniti Stephen Rapp, anche i presidenti delle commissioni Esteri di Camera e Senato, Pier Ferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, e Luigi Manconi, presidente della Commissione straordinaria sui diritti umani.

«Questa mostra fotografica ci porta all’inferno – ha commentato Casini -: questo è lo scenario presente in Siria, e le responsabilità del regime sono altissime». Ancora: «Mai come in questo momento le associazioni multilaterali sono inadeguate e incapaci di creare risposte. Penso alla latitanza delle Nazioni Unite». Critico verso gli organismi internazionali anche Cicchitto: «La situazione è stata abbandonata a se stessa dall’Occidente, questa storia ha dei nomi e dei cognomi». La tortura, ha continuato Casini, è uno strumento barbaro, e ha auspicato che la mostra non si esaurisca con la sua chiusura, il 9 ottobre: «Mi auguro che venga portata nelle scuole».

La tortura in Italia è una questione irrisolta, ha ricordato Manconi: «Bene ha fatto il presidente Casini a evocare la questione della tortura, quella per cui, come ha detto la madre di Giulio Regeni davanti al cadavere di suo figlio, vedeva nel volto di Giulio tutto il male del mondo. Non possiamo non osservare che la fattispecie penale di tortura, a distanza dal 1998, quando l’Italia ratificò la Convenzione internazionale delle Nazioni Unite, non è ancora presente nel nostro ordinamento, e temo che passerà anche questa legislatura senza che venga inserita». In prima fila, ad ascoltare, Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto nel 2009 in circostanze poco chiare dopo essere stato arrestato.

Alla visione della mostra è seguita una tavola rotonda, «anche se è difficile parlare adesso, dopo aver visto quelle foto», ha detto intervenendo padre Camillo Ripamonti, gesuita, presidente del Centro Astalli. Con lui il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi, Giancarlo Bosetti direttore di Reset, e Baykar Sivazliyan, presidente emerito dell’Unione degli Armeni in Italia. «Il mio augurio è questi scatti – ha detto Riccardi -, non tanti ma intensamente terribili, del carcere siriano, provochino uno shock nella nostra coscienza».

6 ottobre 2016