I siciliani di Roma ricordano don Pino Puglisi, maestro di libertà

A Santa Maria Odigitria la Messa in memoria del primo martire di mafia, presieduta dal vescovo Gianrico Ruzza. «Di lui si poteva dire, come di Gesù, che era veritiero e insegnava la via di Dio secondo verità. Ma di questo si muore»

«Venne ucciso dalla mafia perché toglieva i ragazzi dalla strada». Con queste parole monsignor Giuseppe Blanda, primicerio dell’Arciconfraternita di Santa Maria Odigitria dei Siciliani, ha ricordato sabato 21 ottobre il primo martire di mafia don Pino Puglisi, un prete «semplice», assassinato nel giorno del suo 56mo compleanno, il 15 settembre 1993, mentre tornava a casa nel quartiere Brancaccio, tra i più malfamati di Palermo, in cui era nato e dove era parroco. Quando il suo corpo fu traslato dal Cimitero monumentale di Sant’Orsola alla Cattedrale, nel 2013, alla presenza del vescovo ausiliare di Palermo Carmelo Cuttitta, «nelle sue tasche fu trovata la medaglietta votiva della Madonna “che mostra la via” (Odigitria)». L’Arciconfraternita fondata da monsignor Matteo Catalano, amico di san Filippo Neri, “per la salute della anime e per beneficio di tutti i siciliani a Roma”, alla fine del XVI secolo, ha celebrato la liturgia in memoria del parroco siciliano proclamato beato il 25 maggio 2013.

A presiedere la celebrazione, animata dal coro Aramus, il vescovo ausiliare Gianrico Ruzza, segretario generale del Vicariato di Roma, che ha parlato di Puglisi come di «una figura importante. Di lui si poteva dire, come di Gesù, che era veritiero e insegnava la via di Dio secondo verità». Ma, ha proseguito, «di questo si muore. Difendere la verità e insegnare la via che porta a Dio con la propria vita porta al sacrificio, fino al sangue». Padre Puglisi «educava i giovani ad essere liberi, faceva loro scoprire che non siamo pedine, non siamo servi, non siamo utenti e clienti, ma figli di Dio, creature amate da Qualcuno che ci conosce e ci rende liberi».

La mafia, ha osservato ancora Ruzza, «non è un fenomeno siciliano. Ha occupato il mondo intero con un sistema finanziario finto, che opprime con il potere del denaro». Il “prete del sorriso” «insegnava che il valore della persona è nel sigillo dell’immagine di Dio impressa nel cuore». E «una fede operosa si traduce in comportamenti, che sono i frutti della grazia. Predicare l’utopia non è inutile». È questa, per il vescovo, l’eredità spirituale di don Pino Puglisi, «un piccolo uomo, gigante»: la Parola di Dio vissuta «penetra, anche se non appare». Perciò «padre Puglisi è vivo, come vivi sono altri martiri di mafia: i giudici Borsellino e Livatino, e quei martiri che non sono sugli altari ma nei cuori dei loro cari, che sanno che il sangue non è sprecato e che i compromessi del mondo non valgono nulla di fronte a un cuore libero amato liberamente da Dio»

Tra i partecipanti all’assemblea liturgica, anche uno dei suoi ragazzi: Giuseppe Caviglia. Da bambino, fino all’adolescenza, partecipava ai Cenacoli del Vangelo che padre Puglisi organizzava insieme a Lia Cerrito. «Era una persona semplice, un sacerdote umile, sempre disponibile, che faceva tutto con naturalezza», racconta. «Quando l’hanno ucciso, noi che lo frequentavamo siamo rimasti sorpresi, non ce l’aspettavamo. Non era di quei preti che tuonavano contro la mafia. Faceva soltanto quello che un buon parroco deve fare: prendere i ragazzi dalla strada e dare loro un impegno e una speranza. Non era un eroe: viveva il Vangelo, semplicemente».

23 ottobre 2017