Si sentirono trafiggere il cuore: “Cosa dobbiamo fare?”

Così, lo sguardo di Gesù, come il bastone di Mosè che aprì una fonte perenne di acqua divenne punto di partenza ineludibile di ogni chiamata-vocazione

Così, lo sguardo di Gesù, come il bastone di Mosè che aprì una fonte perenne di acqua divenne punto di partenza ineludibile di ogni chiamata-vocazione

I singoli membri della comunità descritta dagli Atti degli Apostoli custodivano e attualizzavano quotidianamente nella loro vita ciò che oggi chiameremmo spiritualità personale, sulla falsariga di ciò che avevano provato al momento stesso della loro adesione alla fede. In quel momento avevano immediatamente risposto infatti all’invito ricevuto da Pietro al termine del suo primo discorso agli abitanti di Gerusalemme nel giorno di Pentecoste, mettendosi totalmente a disposizione di colui nel quale avevano creduto. Pietro aveva dichiarato apertamente, davanti a tutti, che “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2, 36). E il testo degli Atti degli Apostoli racconta che, all’udire queste cose, alcuni abitanti di Gerusalemme “ si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Fratelli, che cosa dobbiamo fare?»”(At 2,37).

Due atteggiamenti che divennero la base solida della direzione nuova che quel gruppo di abitanti di Gerusalemme aveva capito di dover dare alla propria vita. Da allora in poi, quella trafittura del cuore divenne in essi permanente atteggiamento di compunzione, né più né meno di quella che lo stesso Pietro aveva sperimentato la notte del suo tradimento quando, colpito dallo sguardo di Gesù, aveva pianto amaramente (cfr Lc 22, 62), così che il continuo lacrimare fu da quel momento in poi la caratteristica di Pietro fino al punto che la tradizione parla di due solchi profondi scavati dalle lacrime sul volto del primo Papa della storia.

Lo sguardo di Gesù, che come un giorno il colpo del bastone di Mosé sulla roccia, aveva aperto una fonte perenne di acqua tonificante nel cuore di Pietro, divenne molto presto punto di partenza ineludibile di ogni chiamata/vocazione alla totalità dell’amore percepita da chi, consapevole del proprio peccato, sentiva nascere, prorompente dentro di sé, la consapevolezza sicura di aver ottenuto, già in quello sguardo di Gesù condotto alla consumazione della sua passione, il perdono desiderato, e intendeva essere riconoscente con la massima generosità per questo dono di grazia.

Lo sguardo di Gesù che aveva messo al nudo Pietro nella consapevolezza della propria verità personale, facendogli nascere in cuore il pentimento dei propri peccati fino alle lacrime amare e purificatrici, fu accostato molto presto, alla forza della Parola attinta alle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, che provocava una vera e propria trafittura del cuore e permetteva, anzi qualche volta imponeva, sia pure lasciando totalmente liberi, di muovere i primi timidi passi per un cambiamento radicale della propria vita, così come era successo a quei cristiani appena convertiti di Gerusalemme, provocando il desiderio di conformare con semplicità la propria vita a quella dei primi credenti dei quali parlavano gli Atti degli Apostoli.

Emersero così i primi elementi di identità di una vita consacrata che si potrebbe già delineare in: 1.Esposizione totale allo sguardo assolutamente intimo di Gesù che colpisce direttamente il cuore; 2. Trafittura del cuore; 3. Passaggio dal cuore di pietra al cuore di carne; 4. Lacrime, di rincrescimento prima e di consolazione poi; 5. Infine disponibilità totale di corpo, cuore e mente alle richieste che emergevano dalla Parola di Dio. Così si arrivava alla seconda fase della vita, segnata anzitutto da una completa disponibilità all’obbedienza, proprio come era successo a quegli abitanti di Gerusalemme che avevano chiesto: “Fratelli, che cosa dobbiamo fare?” (At 2, 38).

La Parola, che era stata all’origine della compunzione del cuore, veniva desiderata adesso come orientamento sicuro nella nuova fase che si era aperta nella propria vita. Pietro aveva accolto con gioia questa disponibilità. Infatti subito “disse loro: Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo” (ivi).

In queste parole di Pietro stanno i percorsi che segneranno per sempre tutti coloro che avrebbero inteso in futuro queste parole di Pietro non soltanto come invito al battesimo sacramentale, da sempre origine indispensabile di ogni vita cristiana, ma anche come un vero e proprio impegno permanente. Ci si immergeva nel Nome per restare definitivamente segnati dal Nome, come un’appartenenza che non si cancella più, come avviene di fatto in ogni esperienza autentica, e perciò vera e perenne, di amore degno di questo nome. Da qui ciò che nella tradizione della vita consacrata venne chiamata verginità perenne o castità, sintetizzata nell’assioma di ogni vita consacrata: “Nulla, assolutamente nulla, anteporre all’amore di Cristo”.

È del tutto ovvio che si tratti semplicemente della vita di ogni battezzato ma, appunto per questo, si tratta anche della vita di ogni uomo o donna che, in quanto consacrata, fa di tutta la persona una testimonianza permanente, e visibile a tutti, della totale appartenenza a Cristo che è propria di ogni battezzato. E lo fa con scelte concrete che evidenziano la necessità di accostare il battesimo alla conversione continua: “Convertitevi”. Un termine, coniugato in tanti modi, che può indicare sia una svolta nella propria vita, sia un continuo andare oltre la mentalità comune o corrente nell’opinione pubblica, sia un impegno personale a non accontentarsi mai dell’obiettivo eventualmente raggiunto, sia infine di un restare sempre nell’atteggiamento proprio di chi è ben consapevole della propria debolezza ma lo è altrettanto della gioia di sapere in chi ha posto tutta la sua fiducia.

Nacque così quella sorta di preghiera continua fatta, come direbbe San Gregorio Magno, di lacrime amare prodotte dalla consapevolezza del peccato e da lacrime dolci prodotte dal sentirsi «già», anche «se non ancora» in modo completo, nell’abbraccio di “Colui che volentier perdona” (Dante).

Nel testo appena citato degli Atti degli Apostoli, i monaci – e dopo di loro tutti i consacrati – hanno visto dunque una sorta di descrizione della loro stessa vita. Infatti che cos’è una vita consacrata se non una consapevole presa di coscienza della propria realtà battesimale? Se non ci fosse questo i consacrati cristiani non avrebbero nulla da dire alla Chiesa e tanto meno al mondo, perché sarebbero inevitabilmente appiattiti ad una delle tante forme di vita religiosa, non necessariamente cristiana, che pullulano nelle varie forme delle cosiddette «scuole di vita», «scuole di preghiera», «scuole di benessere», «comunità di vita in comune» o semplicemente «comuni», caratterizzate spesso anche o dalla cosiddetta «preghiera trascendentale», oppure dall’«immersione generosa» nella storia, nell’attualità, nelle necessità quotidiane del prossimo, etc. Le numerosissime forme di «volontariato sociale» di cui si sente giustamente e con urgenza assoluta, bisogno oggi nelle nostre città e, comunque, in tutti gli ambienti della vita umana, stanno facendo di fatto dura concorrenza alla vita consacrata cristiana in una società come quella nostra occidentale, che si esprime sia con una secolarizzazione sempre più pervasiva, sia con una globalizzazione di tutto, compresa ovviamente la molteplicità religiosa di ogni tipo, nel contenuto e nella forma.

La vita di una persona consacrata cristiana dovrebbe distinguersi, penso, da tutte le altre forme più o meno analoghe che può assumere qualunque altro essere umano, perché non dimentica affatto le necessità e le urgenze presenti nella società, ma si dona generosamente, con assoluta gratuità, a tutte le necessità che gridano l’incomprimibile desiderio di uomini e donne di ogni età di essere felici, ma lo fa senza mai perdere di vista l’identità nuova ricevuta dal battesimo e motivando, anzi, il suo costante impegno in queste cose, proprio a partire dalla sua scelta fondante e fondamentale di lasciarsi immergere, battezzare dunque, nel Nome.

E infatti proprio grazie alla sua intimità con la persona indicata da quel “Nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2, 9), il consacrato cristiano ritrova, in ogni suo servizio e in ogni preghiera che lo accompagni nel suo darsi all’Immanente che incontra tutti i giorni nella propria vita, il Trascendente di fronte al quale sa che il Padre ha deciso che “ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore” (Fil 2, 10-11).

 

7 aprile 2015