Shahzad e Shama uccisi perché cristiani

In un villaggio del Punjub, inPakistan, la folla si è scatenuata contro due giovani sposi accusati di blasfemia: li hanno picchiati a morte e gettati vivi in una fornace. La donna, 24 anni, era al quarto mese di gravidanza

Li hanno prima assaliti. Una folla di 400, forse addirittura mille persone. Poi li hanno picchiati a morte e infine hanno compiuto il gesto più folle: li hanno gettati vivi in una fornace e sono morti così, bruciati. Siamo in un villaggio del Punjub, in Pakistan. Lui, Shahzad Masih, aveva 26 anni. Lei, Shama, ne aveva 24 ed era al quarto mese di gravidanza. Erano tutte e due cristiani, accusati di blasfemia, per aver bruciato delle pagine del Corano. La realtà ovviamente è diversa ma tutta purtroppo da dimostrare e in Pakistan per quell’accusa è prevista la pena capitale. Quella stessa pena di cui è caduta vittima anche un’altra donna cristiana pakistana, Asia Bibi. Lei, madre di cinque figli.

Cristiani nel mirino. Perseguitati, torturati, uccisi, costretti a migrare. Non c’è pietà né per le donne né per i bambini. È di martedì 4 novembre la presentazione del Rapporto 2014 sulla Libertà religiosa nel mondo redatto dalla Fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre da cui emerge una fotografia tragica sullo stato di discriminazione ed intolleranza in cui vivono i credenti, e in particolare i cristiani, a causa della loro fede. La storia di Shahzad e Shama è solo l’ennesima di un martirologio che sembra non finire mai. E non basta più alzare la voce in difesa degli indifesi. Non bastano più le campagne mediatiche e gli appelli. La comunità politica internazionale appare troppo spesso sorda e indifferente al destino di un popolo come quello cristiano a cui è negato il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione.

Il rispetto per la libertà religiosa non è più una questione tra tante. Realtà marginale in tempi di recessione economica. È piuttosto un tema cruciale perché miete vittime, altera i rapporti tra gli Stati, mette a rischio la sicurezza internazionale. È tempo allora di impegno e di azione. Tempo in cui i governi e gli Stati si mettano dalla parte di chi è più indifeso solo perché minoranza. Solo difendendo i diritti di pensiero, coscienza e di religione si può edificare una civiltà dalle fondamenta solide e sicure. Ma questo progetto sarebbe vano senza l’aiuto e il contributo positivo dei leader religiosi che mai come in questo periodo sono chiamati a denunciare in modo sempre più netto e chiaro che la violenza non ha mai il nome di Dio.

6 novembre 2014