Sea Watch, la posizione della Chiesa italiana e l’appello “Non siamo pesci”

Il segretario generale Cei Russo: «Il dramma che si consuma davanti alle nostre coste non può lasciarci in silenzio». Intanto sono oltre 700 le firme di quanti chiedono un porto sicuro per la nave

«Pur condividendo che la risposta a un fenomeno così globale come quello migratorio chiama in causa tutti i Paesi europei, il dramma che si consuma davanti alle nostre coste non può lasciarci in silenzio». Il segretario generale della Cei Stefano Russo condensa in poche righe la posizione della Chiesa italiana sulla vicenda dei migranti della Sea Watch: 47 uomini, donne e bambini da 10 giorni a bordo della nave in attesa di un porto sicuro in cui sbarcare che nessuno pare voler concedere. Da 4 giorni la Sea Watch è ancorata al largo della sicilia.

Attraverso Caritas italiana, la Chiesa si dichiara disposta ad accogliere i 13 minori a bordo della nave. «La nostra voce – aggiunge monsignor Russo – si unisce a quella della Chiesa di Siracusa, come pure di altre istituzioni, associazioni e comunità che si riconoscono impossibilitati a distogliere ulteriormente lo sguardo da queste vittime». Tra questi, gli oltre 700 firmatari che nel fine settimana hanno sottoscritto l’appello “Non siamo pesci”, promosso da Luigi Manconi e Sandro Veronesi con il collettivo #corpi. Uomini e donne del mondo della cultura, dello spettacolo, della musica e dello sport, che chiedono di istituire subito una commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi nel Mediterraneo e di realizzare una missione in Libia. E riguardo alla vicenda della Sea Watch, si chiede  al governo di offrire un porto sicuro alla nave, «ripristinando il rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali, e soprattutto del senso della giustizia. A cominciare con il consentire alle navi militari e alle ong che salvano le vite in mare di poter intervenire. Si vuole ricordare a tutti gli Stati europei – si legge ancora nel testo dell’appello – che la redistribuzione dei migranti si fa a terra e non in mare».

“Non siamo pesci” era quello che scriveva dalla Sea Watch Fanny, fuggita da un conflitto armato in Congo e rimasta per 19 giorni a bordo della nave. «Non riuscirò più a parlare tra poco perché sto congelando. Fate presto»: l’ultima telefonata giunta al numero di Alarm Phone dal barcone con circa 100 persone a bordo, al largo di Misurata, domenica 20 gennaio. «Non ho bisogno di essere sui notiziari, ho bisogno di essere salvato»: l’ultima risposta che uno dei 100 naufraghi lascia ad Alarm Phone. «La ripetizione di questi “non” – scrivono gli estensori dell’appello – porta in superficie quel che una semplice cronaca di quanto avvenuto nel Mar Mediterraneo nel corso delle ultime ore non riesce più a far percepire».

sea watch 3Nel testo si ricordano i fatti: qualche giorno fa, in una manciata di ore, hanno perso la vita nelle acque del Mediterraneo 170 tra migranti e profughi. «Quarantasette sono stati tratti in salvo dall’organizzazione non governativa Sea Watch e circa 100 sono stati raccolti dal cargo battente bandiera della Sierra Leone e avviati verso il porto di Misurata dove, prevedibilmente, saranno reclusi in uno dei centri di detenzione, legali o illegali, della Libia. Centri dove, secondo i rapporti delle Nazioni Unite e di tutte le agenzie indipendenti, si praticano quotidianamente abusi, violenze, stupri, torture». Intanto, si legge ancora nel testo, «l’imbarcazione Sea Watch 3 è destinata a ripercorrere quel doloroso e drammatico itinerario che già l’ha portata a cercare invano un porto sicuro per ben 19 giorni».

Sea Watch, si evidenzia nell’appello, «è l’unica ong oggi presente nel Mar Mediterraneo, ormai privo di qualsiasi presidio sanitario, di soccorso e di protezione dei naufraghi. Altro che fattore di attrazione per i flussi migratori, altro che “alleati degli scafisti” o “taxi del mare”: le navi umanitarie, le poche rimaste, salvano l’onore di un’Europa che dà il peggio di sé e si mostra incapace persino di provare vergogna». La scelta di “Non siamo pesci” allora è quella di «dare voce a un’opinione pubblica che esiste» e che chiede il ripristino di leggi e convenzioni sovranazionali, oltre che del senso della giustizia. «E a chi finge di non conoscere le condizioni di quanti – grazie anche a risorse e mezzi italiani – vengono riportati nei centri di detenzione libici, chiediamo di fare chiarezza sul comportamento e sulle responsabilità della guardia costiera libica. E sulle cause dei più recenti naufragi, come quello che ha causato, in ultimo, la morte di 117 persone, rendendo pubblici documenti, comunicazioni e video relativi»

Nel pomeriggio di oggi, 28 gennaio, alle 17 è in programma un appuntamento in piazza Montecitorio per presentare l’iniziativa. Intanto per firmare l’appello è possibile scrivere a nonsiamopesci@gmail.com.

28 gennaio 2019