Scuola, l’ultimo granaio di senso

L’importanza dello sguardo nello spazio tra la cattedra e il banco, spazio e tempo della scuola. Le aule sono il luogo dove l’ago della bilancia tra la vita e il morire punta sfrontato verso la prima

Il banco e la cattedra sono due sguardi. Quando si è ancora studenti – l’abbiamo fatto ai cambi dell’ora, l’abbiamo fatto negli intervalli – ci si siede un giorno dietro la cattedra, al posto dell’insegnante: si guardano i banchi. È uno sguardo diverso, fa sentire grandi, un oltraggio allo spazio da un tempo diverso. Ma quando si diventa insegnanti – chi lo è l’ha fatto alla fine di una lezione, lo ha fatto alla fine di un anno scolastico – ci si siede un giorno dietro al banco, al posto degli studenti: si guarda la cattedra. È uno sguardo diverso, il banco sembra piccolo, un oltraggio al tempo da uno spazio diverso.

Il banco e la cattedra sono lo spazio e il tempo della scuola, ma la scuola è in un altrove dallo spazio e dal tempo del mondo. La scuola è dove l’ago della bilancia tra la vita e il morire punta sfrontato verso la prima. Perché le pelli sono giovani, i passi sono elastici, le dita sono tese. Perché i pensieri sono rapidi, le parole sono frenetiche, i rossori sono improvvisi. Invecchiano i muri e gli insegnanti, loro no, gli studenti hanno sempre quell’età, sono aggrediti dall’eccesso della vita. Se il mondo è ellisse, al fuoco opposto della scuola c’è l’ospedale. L’ospedale è dove l’ago della bilancia tra la vita e il morire punta nudo verso il secondo. Ecco perché la scuola, che si può guardare dal banco e dalla cattedra, è comunque uno sguardo di sghembo sul mondo, ecco perché la scuola è in un altrove dallo spazio e dal tempo del mondo.

Ma per questo si continua a parlare della scuola, si continua a raccontare la scuola, si continua a dire male e dire bene della scuola. Perché di quel fuoco da dove guardare di sghembo il mondo c’è bisogno, come quando batte il sole che brucia e si anela il posto all’ombra, dove tutto è verde, germoglia, cresce, spiga; perché invece, nel mondo, oramai nulla più è verde, nulla più germoglia, nulla più cresce e nulla più spiga: non germoglia più la città dell’uomo, non cresce più la città di Dio, non spiga più la nostra vita, la mia, la tua. A scuola invece sì che accade, per forza che accade e continuerà ad accadere: le pelli sono giovani, i passi sono elastici, le dita sono tese. I pensieri sono rapidi, le parole sono frenetiche, i rossori sono improvvisi.

L’ultimo granaio di senso: il magazzino stipato di futuro. L’ultimo desiderio possibile: il tensore d’inerzia del futuro. L’ultima risposta attesa: la cavea gremita nel procinto di una parola che predica il futuro. Per questo, indebitamente, anche chi nel mondo proclama l’inattendibilità del senso, l’impossibilità del senso, la fine del senso, dalla scuola continua pretendere sotto la pretesa del futuro la produzione del senso.

Come tutti, anche io mi sono messo a guardare la scuola, a scrivere della scuola, da dentro e fuori la scuola, anche su questa rubrica, #quindiciventi su Romasette.it, dalla quale oggi mi congedo dopo sei anni. Un tempo che, ciclo come stagione, ora sta nel perimetro di queste poche righe, in ogni giorno passato a scuola, di queste parole, da settembre a giugno, dall’inizio dell’anno alla fine dell’anno, di questi sei anni. Questo mi è capitato e così l’ho a poco a poco capito, l’ho scritto, l’ho raccontato: ma non dalla cattedra, non dal banco, ma nello spazio e nel tempo che stanno in mezzo. Perché solo da lì si può conoscere la scuola, in quel vuoto che ogni mattina si riempie, tra la vita e il morire, la riga tra il cielo e il mare, tra lo spazio e il tempo, il pieno tra la cattedra e il banco.

19 luglio 2023