Rosario Livatino, tra Vangelo e codice penale

Il “giudice giusto” raccontato nel libro del giornalista Toni Mira, pubblicato in vista della beatificazione, il 9 maggio ad Agrigento, nel Giorno della memoria delle vittime del terrorismo, anniversario dell’omicidio Moro e di quello di Peppino Impastato. La prefazione di don Ciotti

Tutti lo conoscono come “il giudice ragazzino” o “il piccolo giudice”, appellativo datogli da Ida Abate, sua insegnante di latino e greco che gli ha dedicato una biografia. Ma chi era Rosario Livatino che domenica 9 maggio sarà beatificato ad Agrigento divenendo così il primo magistrato, laico, a essere proclamato beato e martire? Ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990, Livatino era un uomo, «profondamente rispettoso della dignità altrui», che nell’aula di tribunale si alzava e porgeva la mano all’imputato. Un rispetto per l’uomo che lo portava anche «in obitorio a pregare sul corpo crivellato di un mafioso che aveva conosciuto a causa del suo lavoro». Vangelo e codice penale si intersecavano nella vita di quest’uomo capace di «essere un vero laico cristiano che univa la fede a una professione di altissimo livello». Un esempio di vita che ha illuminato la strada di quanti lo hanno conosciuto, tanto da voler proseguire il suo impegno sul fronte della legalità.

Nuovi particolari inediti sulla figura del magistrato, «lontanissimo dalla sete di potere, dalla voglia di apparire o di intrecciare rapporti con la politica», emergono dalle pagine di “Rosario Livatino. Il giudice giusto”, nuovo libro di Toni Mira, giornalista di Avvenire, che negli anni si è «innamorato» di quest’uomo talmente riservato che di lui «si hanno pochissime fotografie». Già in passato aveva scavato nella storia del giudice ma questo libro, delle Edizioni San Paolo, ha rappresentato l’occasione per far emergere «l’uomo dall’umiltà e profondità straordinaria» attraverso la viva voce di una ventina di testimoni, tra i quali colleghi e amici. È proprio dai loro racconti che è nato anche il titolo del testo, perché «dalle parole di tutti è emerso proprio il suo essere uomo e giudice giusto. Una figura che non può limitarsi al “santo da immaginetta” ma la sua profondità, impegno professionale, grande umanità devono essere da esempio».

libro Livatino, Toni MiraIl libro, la cui prefazione è stata affidata a don Luigi Ciotti, è stato pubblicato in occasione della beatificazione, la cui data non è stata scelta a caso ma ricorda il grido di condanna contro la mafia di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi il 9 maggio 1993. Per uno strano caso di “coincidenze” il 9 maggio, Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, anniversario dell’omicidio di Aldo Moro, ricorre anche il 43° anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, altra vittima di Cosa Nostra. «Sono tante le coincidenze che ruotano intorno alla figura di Livatino», spiega Mira ricordando Pietro Nava, il testimone oculare dell’omicidio Livatino che per puro caso si trovò a passare sul luogo del delitto e collaborò con gli inquirenti per risalire ai responsabili. O ancora, don Filippo Barbera, che all’epoca aveva 26 anni ed era stato ordinato da appena un anno. «Non era solito fare quella strada ma per un’altra strana coincidenza arrivò sul posto poco dopo l’omicidio – prosegue il giornalista -. Non gli permisero di avvicinarsi e da lontano impartì la benedizione alla salma». Durante l’intervista, inserita nel libro, il sacerdote, oggi arciprete di Ravanusa, ha raccontato di pregare spesso Livatino «chiedendogli di avere la sua stessa capacità di donarsi fino alla fine».

La virtù dell’umiltà affiora dai racconti degli ex adolescenti che lo hanno conosciuto al catechismo. «Livatino fece la cresima da adulto – spiega ancora Mira -. Nonostante fosse già un giudice affermato volle prepararsi con gli altri e partecipava agli incontri con ragazzi di 15 anni. Oggi uno di loro è avvocato e racconta come l’esempio di Livatino lo abbia spinto a impegnarsi sul fronte della legalità». La vita del giudice “ragazzino”, per Mira, è la conferma che «la fede non deve essere un intralcio all’impegno lavorativo anzi aiuta a essere professionalmente migliori, non solo umanamente. La sua storia, se ben letta e ben approfondita, fa molto bene ai magistrati, che oggi non stanno attraversando una delle stagioni migliori. Questo è uno dei momenti di più bassa credibilità della magistratura, soprattutto nei confronti dell’opinione pubblica, e il suo esempio può risultare prezioso».

6 maggio 2021