Requiem per Moro

Maggio 1978, monsignor Venier ricorda il sacrificio dello statista Dc e gli ideali con cui ha illuminato la sua vita

Una forza irresistibile mi ha spinto a infrangere la mia clausura notturna, per ascoltare, nella chiesa del Gesù, la S. Messa per l’on. Aldo Moro, nel giorno stesso del suo incredibile assassinio. A pochi minuti da casa mia, su strade amiche, tra palazzi e chiese che spesso rasento assorto nei miei pensieri, era stata trovata nel primo pomeriggio, la sua metallica barra amaranto. Erano rimasti, a quell’ora tarda, un gruppetto di persone fra stazionamenti di militari e di polizia, qualche fiore immerso nella luce, una foto gigante con una frase che mi era subito piaciuta: «vivrà sempre nei nostri cuori-la tua fede-nella libertà».

Sintesi di una vocazione o di una scelta, va bene. Ma ero stufo di parole su misura: l’uomo politico, l’uomo di fede, l’uomo di cultura, l’uomo statista, l’uomo dalle formule enigmatiche, quasi irrazionali, ma costruttive, l’uomo dalle soluzioni impossibili, l’uomo mediatore, l’uomo del futuro. Avevo bisogno solo di un po’ di silenzio. Avevo bisogno di altre verità. E sono entrato in chiesa, tra flash e controlli alla porta, incurante degli uomini politici e parapolitici presenti.

Presiedeva all’altare un sacerdote messicano, con altri sacerdoti stranieri, che avevano già sperimentato nei loro paesi il passaggio della violenza politica: anche le loro riflessioni barbare mi erano più amiche. Vennero le parole che trascendono gli eventi e le forme; la speranza di una realtà diversa che nessuna tragedia incrina. Sentivo rigermogliare in me la fede che aveva costruito Aldo Moro.

Compresi li – ora il suo sacrificio era stato consumato – il senso del calvario che, comunque abbia portato al tragico finale, nascondeva il pezzo del suo personale contributo alla costruzione di un mondo più giusto e pacifico. Compresi allora l’angoscia dei 54 giorni di mortale attesa, angoscia tanto amara da sembrare incomprensibile, era in realtà tanto umana: simile alla preghiera recitata da Gesù, con sudore di sangue, nell’orto del Getsemani.

Compresi che l’arco di pace tra le contrastanti forze che dominano l’Italia attuale, poggia sempre su quel progetto di fratellanza che ci veniva suggerita dal Pater Noster, ripetuto insieme tra le lacrime. Compresi perché in quel momento di fede non ci siano state parole di odio o proposte e propositi di vendetta: erano, anche gli altri, gli estranei, che pur avevano enormemente sbagliato, fratelli; ogni altra morte sarebbe stato lo stesso delitto che continua. Compresi come il vangelo si fa nostro nei momenti dello spasimo umano, come Gesù diventi uno di noi, l’amico insostituibile che ci sprofonda nella realtà divina di un’altra famiglia (mai mi parvero più vicini, più cari, più «miei» la signora Nora e maria Fida e Agnese e Giovanni e Anna i famigliari e gli amici tutti) e ci consacra, attraverso il dolore, per il giorno di una risurrezione collettiva. Sono uscito dalla chiesa con una luce nuova.

La città, fuori, nella notte in fermento, era immersa in un silenzio pesante, pieno di umiliazione e di interrogativi. Le persone mi sembravano automi tanto passavano sole con se stesse. Le auto filavano via come sul velluto: una che ebbe il coraggio di suonare sembrò che avesse tracciato una lunga ferita. Domani e dopodomani e dopodomani ancora, parole e parole. Ma ci sarà qualcuno che non farà cadere nel vuoto del banale o della retorica l’esempio e il martirio di Aldo Moro? Ci sarà chi vorrà illuminare la vita politica, il comportamento di tutti noi con gli ideali cristiani per i quali egli ha testimoniato ed offerta la vita? (Elio Venier)

14 maggio 1978