«Dolore» e «orrore». Muove da questi due sentimenti la lettera aperta inviata da volontari, cappellani e operatori che “abitano” quotidianamente il mondo del carcere. Il riferimento è alla tragedia che si è consumata a Rebibbia il 18 settembre scorso, quando una detenuta ha gettato dalle scale della Sezione nido i suoi due bambini. Una è morta sul colpo, l’altro il giorno dopo. Una vicenda che «ci ha lasciati senza fiato. Un dolore e un orrore – proseguono – che ha travolto tutti: i due bambini innanzitutto, quella madre che forse ancora non è consapevole di quello che ha fatto, tutti gli operatori dell’Istituto, le oltre trecento donne lì detenute, le loro famiglie e anche noi volontari, cappellani, operatori del sociale, del mondo del lavoro, della cultura, dello sport, della salute che ogni giorno entriamo in carcere per dare il nostro contributo affinché la pena risponda sempre più alle finalità dettate dalla Costituzione». E ancora: «Abbiamo accolto tutto questo dolore in un silenzio rispettoso, vicini alle donne detenute, al loro smarrimento e dolore. Abbiamo cercato di comprendere i tanti tasselli di una vicenda che ha avuto un epilogo così drammatico».

La lettera, diffusa dalla Caritas diocesana di Roma – che con la sua associazione Volontari in carcere è tra i primi firmatari, insieme ai cappellani degli Istituti di Rebibbia – parte dalla consapevolezza della «complessità del carcere, dei suoi problemi, della sua gestione». Allo stesso tempo però, si legge nel testo, «conosciamo anche bene l’impegno da sempre profuso dalla Direzione dell’Istituto femminile di Rebibbia per fare del carcere un luogo di reinserimento, di riflessione, di presa di coscienza, di riappacificazioni delle detenute con sé stesse e con le persone che hanno sofferto per le loro colpe, di crescita culturale e molto altro ancora». I firmatari scrivono dell’«attenzione con cui le donne sono seguite», dell’apertura dell’Istituto al territorio e alle sue istituzioni, «come la scuola materna del quartiere che accoglie ogni giorno nelle sue classi i bambini della Sezione nido». Scelte operative «che condividiamo». Proprio per questo «sentiamo il dovere di rompere il silenzio».

Per operatori e volontari è «un grave errore pensare di dare una risposta risolutiva a questo dramma scaricando sulla direzione e sulla vice-comandante la responsabilità di quanto è successo. Le responsabilità – osservano – sono tante e nessuno, nemmeno noi,  può pensare di tirarsene fuori, trovando un colpevole che paghi per tutti». E usano la parola «dramma» per descrivere la situazione dei bambini in carcere, per la quale la legge del 2011 era intervenuta tracciando una linea che prevede una collocazione alternativa per mamme detenute e bambini «ma la sua applicazione fatica a trovare pienezza». Anche il disagio sociale «sempre più presente all’interno degli Istituti di pena» non è una novità, rilevano ancora i firmatari della lettera, e «troppo spesso il peso di tale problema è affidato al personale di polizia penitenziaria». Da una parte infatti «gli enti locali faticano a dare risposte a chi esce dal carcere e cerca di ricominciare una vita diversa»; dall’altra gli stessi cittadini «molto spesso si oppongono alla nascita di strutture di accoglienza, come le case famiglia per le donne detenute con figli». In questo quadro, è la conclusione della lettera, «colpire i vertici della Casa circondariale femminile di Rebibbia significa, per noi, aggiungere danni alla tragedia provocata da una mamma detenuta».

2 ottobre 2018