Raimondo Etro: «Noi ex Br, per rispetto dovremmo tacere»

Custodì le armi dopo la strage di via Fani, 16 anni dietro le sbarre. «Il perdono? Lo ha chiesto chi doveva uscire dal carcere». Negli anni ’70 «un’aria che qualcuno sta cercando di ricreare»

«Non è la prima volta che mi capita di leggere le cose che Barbara Balzerani scrive su Facebook. Ma il problema non è tanto quello che scrive lei, quanto i suoi ammiratori: quelli che si complimentano, che dicono, che fanno ironia». Raimondo Etro, ex militante delle Brigate Rosse, a metà gennaio aveva risposto con una lettera aperta al Corriere della Sera a un post ironico della ex compagna di lotta che chiedeva ospitalità all’estero in occasione del quarantennale della strage di via Fani. Di Balzerani vuole subito specificare: «L’ultima volta che l’ho vista era il 1979. È rimasta alla rivolta della classe operaia».

Etro, nella sua lettera lei parlava delle Brigate Rosse come di una “setta” piuttosto che di un’organizzazione. Perché?

Perché le Br, con la scusa di creare l’uguaglianza e il mondo nuovo, avevano creato dei propri riti, una liturgia, dei dogmi; e più ne facevi parte, più era difficile uscirne. E infatti ecco le dichiarazioni di Balzerani. Ancora oggi tra gli ex brigatisti c’è chi mi accusa di non avere avuto il coraggio di sparare a una persona di spalle.

Lei infatti partecipò ad alcune azioni cruente delle Brigate Rosse, ma senza mai sparare.

Questa per me non è una distinzione. Ho comunque partecipato. Non penso che chi non abbia colpito sia più buono, perché anche chi distribuiva i volantini sapeva per cosa lo faceva. Il fatto di essermi risparmiato questa infamia, sebbene non cancelli quello che ho fatto, è una sensazione che altri non hanno. Ma io ho comunque davanti gli occhi delle immagini incancellabili che mi accompagnano da quarant’anni.

Perché entrò nella lotta armata?

Io ho iniziato a militare a 13 anni e per tradizione familiare. Mio padre era un avvocato del Pci e mio zio era stato esiliato politico a 17 anni per avere gridato “viva la libertà!” ai Carabinieri che portavano via dei confinati da Avezzano. Poi c’era il clima: negli Settanta si respirava un’aria di cambiamento, si voleva buttare giù il vecchio sistema e combattere l’autoritarismo. Successe invece che quel bel clima fu gestito e utilizzato da forze che sicuramente quel rinnovamento non lo vedevano di buon occhio.

Spesso ha usato un’espressione allusiva: “Ci hanno lasciati fare”.

È la strategia della tensione. Noi siamo stati usati per impedire che la parte progressista entrasse a far parte di un governo di unità nazionale. Questa cosa dava fastidio agli americani, ai francesi, ai tedeschi, ma anche al blocco sovietico. Non lo abbiamo capito, anzi pensavamo che Moro fosse l’uomo di Washington, la persona a conoscenza dei segreti oscuri… In realtà era l’uomo che sinceramente voleva dare all’Italia una svolta democratica, aprendo al centrosinistra. Ma, imbevuti dall’ideologia, e appunto gestiti da altri, abbiamo agito in quel modo. Se qualcuno non ci avesse messo la pistola in mano, ci saremmo limitati a bruciare le macchine. Da soli non avremmo fatto nulla. Dico questo senza sminuire le responsabilità personali, che rimangono. Allora c’era un’aria che qualcuno, a parere mio, sta cercando di ricreare.

Si riferisce al terrorismo di matrice islamista?

Quella è più una schizofrenia. Perché gli islamisti combattono un sistema che garantisce loro la libertà, i diritti, e anche eventualmente la pensione. Vivono sotto delle dittature religiose, poi vengono qui perché stanno bene ma vogliono abbattere lo stesso sistema che li accoglie. L’unica cosa che ci unisce è la volontà di distruzione. Per il resto noi avevamo alla base famiglie disgregate e una cultura medio-alta; loro al contrario hanno famiglie molto unite e una cultura molto bassa. Noi eravamo creati dall’Occidente, loro dall’anti-Occidente. Mi riferivo però al cosiddetto antifascismo.

Che nesso vede tra l’antifascismo di oggi e la lotta armata dei suoi tempi?

Vedo un principio di istigazione alla violenza, come il caso di quella insegnante che augurava la morte ai Carabinieri. C’è chi parla senza cognizione di causa e chi ha l’intenzione di distogliere i giovani, perché più deboli e perché rispondono subito ai proclami. Specie se ragazzi provenienti da famiglie benestanti.

Li ha definiti “una minoranza di idioti”.

Sono quelli che hanno dato e danno ascolto ad alcuni intellettuali che si definiscono di sinistra: Oreste Scalzone, Erri De Luca, Toni Negri, Franco Piperno. Gente che ha spinto una generazione di giovani a uccidere, guadagnando per sé un posto nella società.

Lei parla come un pentito ma non vuole definirsi tale. Perché?

Non sono pentito nel senso che non posso rinnegare i motivi per cui da ragazzo mi sono impegnato politicamente. Certamente c’è rimorso per il male che ho fatto, e auspico che nessuno faccia le mie scelte; ma entrare in queste categorie giuridico-morali non mi è mai appartenuto.

Lei infatti non ha mai chiesto perdono.

Su cosa dovrei chiederlo? Il perdono lo ha chiesto chi doveva uscire dal carcere, era una cosa strumentale. Io non ho mai cercato contatti con i familiari delle vittime, come hanno fatto altri. Ho un rapporto intenso con Giovanni Ricci, il figlio dell’autista di Moro, e Gianpaolo Mattei, che sopravvisse al rogo di Primavalle. Con loro abbiamo fatto ricerche su una ventina di morti sui quali è calato uno strano silenzio, probabilmente per un patto scellerato tra estremisti delle due parti: si tace su quei ragazzi per non sporcare la purezza dei movimenti rivoluzionari, mentre si continua a parlare degli omicidi fatti dalle forze armate.

Il 16 marzo cadono i quarant’anni dalla strage di via Fani e del sequestro di Aldo Moro. Cosa pensa delle celebrazioni?

Dico che i familiari e lo Stato hanno tutto il diritto alla commemorazione. Ma bisogna tracciare una distinzione tra questa, che non riguarda noi, e chi vuole far credere che le Br fossero un fenomeno puro. Noi ex terroristi, per il rispetto dovuto a chi ha sofferto e soffre, dovremmo tacere.

 

15 marzo 2018