«Questo mondo non è più bianco», la pulsione politica di Baldwin

Si tratta di articoli da leggere alla maniera di taccuini autobiografici, riflessioni che partono sempre da episodi di vita vissuta, dall’infanzia e adolescenza di Harlem

La “negritudine” in James Baldwin (1924–1987), uno dei più importanti scrittori del ventesimo secolo, non è mai stata soltanto una condizione esistenziale. Nei suoi romanzi migliori, da Gridalo forte (1953) a Un altro mondo (1961), si trasforma nella matrice poetica che orienta e governa il respiro sincopato dell’affabulazione, una cadenza ritmica, fra il blues e la predicazione biblica, capace di sfondare i limiti narrativi. Come se l’antica energia degli schiavi africani deportati in America diventasse, per contrappunto vitale, un modo di scrivere e di essere, il paradigma espressivo del figlio che vuole recuperare il valore negletto del padre, quasi per firmare, con orgoglio e fierezza, la propria presenza sul registro delle nuove generazioni.

Si tratta di una pulsione, profondamente politica, tesa al cambiamento della società, che ritroviamo in altri grandi autori neri americani: dal sentimento egualitario di Richard Wright al sofisticato sarcasmo di Ralph Ellison, fino alla protesta in stile manifesto di Amiri Baraka, sentiamo sempre che la prima persona viene usata come un grimaldello contro la stupidità del razzismo, la protervia di chi vorrebbe dividere l’umanità in generi e sottogeneri, la paura di quelli che temono il confronto e non comprendono quanto sia necessario e ineludibile conoscere le persone che incrociamo. Se intesa così, l’opera, potente e multiforme, di James Baldwin, è un tutto unico, come dimostra anche il suo versante più saggistico evidente già in Questo mondo non è più bianco (Bompiani, pp. 207, traduzione di Vincenzo Mantovani, 17,50 euro), che comparve per la prima volta nel 1955 ( Notes of a native son).

Lo scrittore aveva appena superato i trent’anni ed era nel pieno del fervore creativo. Si tratta di articoli da leggere alla maniera di taccuini autobiografici, riflessioni che partono sempre da episodi di vita vissuta, dall’infanzia e adolescenza di Harlem, quando Baldwin si esibiva quale predicatore carismatico nelle chiese battiste, ai viaggi in Europa, soprattutto a Parigi, la sua città–faro insieme a New York. Indimenticabili restano i ricordi dedicati al padre, che morì al tempo in cui lui aveva diciannove anni, e le disavventure francesi, quando gli capitò di trascorrere qualche giorno in gattabuia, accusato di ricettazione. Oggi più che mai questi testi tornano ad essere preziosi e necessari per comprendere il lavoro umano da compiere ogni volta che siamo chiamati in causa in quanto individui sociali: «Alla radice del problema dei negri americani – scriveva Baldwin alla metà degli anni Cinquanta durante i tumulti razziali – c’è la necessità dell’uomo bianco di trovare un modo di vivere col negro per poter vivere con se stesso».

Tale ottica antropologica non sempre gli venne riconosciuta come corretta, alcuni anzi credevano che lo scrittore s’invischiasse troppo nella psicologia dei dominatori. Era vero piuttosto il contrario. Egli infatti sapeva, e l’andamento speculativo dei saggi lo dimostra appieno, che il razzismo dovrebbe portare l’attenzione su chi lo manifesta. Fino ad ammettere: «La condizione del negro in America è una forma di follia che colpisce gli uomini bianchi». Ma la storia avanza e si trascina via tutto. Al punto che oggi la conclusione icastica dell’ultimo articolo, Uno straniero in Paese, potrebbe essere utile a tutti noi: «Questo mondo non è più bianco, e non lo sarà mai più».

 

 

26 novembre 2018