Quando il senso del limite diventa una risorsa

L’impegno nella formazione a scuola tra errori e difficoltà, ma con la consapevolezza del valore delle “strettoie” che il lavoro educativo impone, che paiono la natura stessa di questo mestiere

Quanto ci si mette a fare funzionare una classe? Mi facevo questa domanda mentre salivo le scale, per entrare in una che mi è stata assegnata quest’anno e nella quale giusto adesso, che è febbraio e sono passati più di quattro mesi di scuola, mi pare inizi a muoversi qualcosa. Ma se guardo indietro a questi quattro mesi, mi sembra di vedere lo sforzo di chi prova a mettere in moto una macchina a spinta che sì, magari prima sarà pure andata, ma che arrivato io s’è di nuovo inchiodata manco fosse ferma da dieci anni. Una gran fatica insomma, giorno per giorno, ora per ora, ma soprattutto un ambaradan che davvero è quanto di più irriducibile a una procedura prevedibile, a un piano stabilito, a un processo validabile e squadernabile, al netto del mio studio (quotidiano), del mio impegno (costante), della mia voglia (mai venuta meno).

Quanto ci mette a funzionare un insegnante? Mi sono fatto anche questa domanda, mentre salivo le stesse scale e mi avviavo verso la stessa classe, facendo il conto che con quest’anno sono ventuno anni che lavoro dentro una scuola. E qui l’ottimismo parrebbe venire ulteriormente meno, o forse si cresce di sano realismo se, sempre al netto del mio studio (quotidiano), del mio impegno (costante), della mia voglia (mai venuta meno), ogni anno che passa avverto più lucidamente l’esposizione all’errore, al non venirne a capo, alla complessità insomma, che un minimo di onestà intellettuale e amor del vero non possono non lasciare in dote.

Se un tempo mi pareva di fare tutto presto e bene, negli anni mi sono sempre più trovato ad avere a che fare con miei limiti che non posso non riconoscere, con la sensazione a fine giornata di non averci preso, o in quelle mattinate in cui mi beo della percezione opposta, con la contezza altrettanto lucida di quanto ciò sia sempre in equilibrio precarissimo e che, vivaddio, ciò dipenda da un ambaradan che davvero è quanto di più irriducibile a una procedura prevedibile, a un piano stabilito, un processo validabile e squadernabile, al netto di tutto il mio studio (quotidiano) etc etc.

Ma quanto ci si mette allora ad accettare questo senso del limite, queste strettoie che il lavoro educativo ci impone, fino a scorticarcisi in mezzo, ma che alla fine paiono la natura stessa di questo bellissimo ma problematicissimo mestiere? Una possibile risposta mi pare di averla trovata in questi giorni, per caso, scoprendo gli scritti di Giovanni Taulero, che parla di «semplicità nella molteplicità», che nel secolo XIII, disquisendo di crisi a metà del percorso, dei preziosi tesori celati nelle stesse, scrive: «Se l’uomo potesse sopportare tutto questo e accettarlo totalmente sarebbe per lui cosa più utile di quanto abbia mai prima compreso o gli sia stato concesso. In questo sconvolgimento l’uomo che vi si affida viene condotto indicibilmente oltre, più di ogni opera, istruzione e norma che abbia mai pensato o scoperto prima». Ecco, proprio questo: senso del limite come risorsa, di più, come unica postura plausibile e capace di senso per chiunque abbia a che fare con l’irriducibile a uno per definizione, ovvero la vita e la sua formazione.

10 febbraio 2023