Proteste in piazza anche a Beirut
I disordini dal 17 ottobre, dopo la decisione del governo di tassare le chiamate su internet attraverso applicazioni come Whatsapp
«Chiediamo le dimissioni del governo». Salha non riesce a finire la frase: alle sue spalle qualcuno accende un fumogeno mentre tutti i presenti intonano uno dei tanti cori nati durante questi sei giorni di proteste che da Beirut si sono rapidamente espanse in tutto il Libano. Siamo sulle scale della grande moschea, nel centro della capitale libanese, insieme a centinaia di altre persone che dalle stesse scale intonano canti e cori contro una classe politica che ha portato il paese allo stremo. Il Libano è infatti in una profonda e ormai prolungata crisi economica che colpisce in modo trasversale gran parte dei suoi cittadini. Salha, che ha già da qualche anno passato i settanta, è una di loro. Come tutti in piazza, è stanca di quanto sta accadendo: «Ho lavorato una vita per garantire un futuro alle mie figlie, ma nessuna ha avuto le possibilità che meritava». Trasferitasi a Beirut dalla valle della Bekaa in cerca di lavoro, non ha trovato che impieghi saltuari, cosi come le sue due figlie, vittime di un sistema scolastico pubblico scadente e uno privato elitario e caro.
Le sue parole sono simili a quelle di altre migliaia di manifestanti che hanno invaso le strade di tutte le principali città del paese: corruzione, disoccupazione e mancanza di prospettive per una vita dignitosa in Libano sono le tematiche principali di questa rivolta. Inaspettata e orizzontale, al momento è priva di un qualunque vertice politico. Scoppiata giovedì 17 ottobre a seguito della decisione del governo di tassare le chiamate su internet attraverso applicazioni come Whatsapp, la protesta ha portato in piazza tutte le istanze e le contraddizioni del Paese. L’irruento inizio, caratterizzato da scontri, incendi e arresti ha lascito il posto ad un movimento pacifico e traboccante di allegria e speranza per un futuro migliore, anche se ancora lontano e difficile da raggiungere.
«Fino a una settimana fa non pensavo di poter avere un futuro nel mio Paese», dice Asad, studente di ingegneria, mentre altri suoi compagni di corso annuiscono. «Puoi anche essere il migliore tra gli studenti, se cerchi lavoro e non hai le conoscenze giuste ti troverai ad ingrossare le fila dei libanesi all’estero. Forse quello che sta succedendo ora ci porterà verso un futuro migliore». Per la gioventù libanese, rimanere in patria è la meno preferibile delle opzioni, bloccati in un sistema basato sulla raccomandazione e che non considera il merito. La wasta, ovvero la “raccomandazione”, è ciò che regola i rapporti tra il potere, l’amministrazione e i cittadini: reti clientelari, legami familiari e d’amicizia strutturano le decisioni politiche e l’erogazione dei servizi.
A complicare le cose in Libano, si aggiunge la peculiare caratteristica del settarismo, ovvero la divisione della società e l’organizzazione politica sulla base identitario-confessionale. La questione settaria pervade la società libanese a tutti i livelli ed è stato spesso uno strumento utilizzato per aumentare i consensi da parte dei vari esponenti politici, strumentalizzando l’appartenenza religiosa per fini politici. Alleanze poco stabili e interessi spesso legati a paesi terzi che in Libano trovano un campo di gioco per le proprie agende, strangolano la società con narrative e politiche divisive che tendono a favorire un sentimento d’appartenenza “feudale”, leale alla propria comunità piuttosto che ad uno nazionale. La politica libanese si è resa così nel tempo un sistema farraginoso e lento, incapace di reagire alle problematiche che attanagliano il paese.
È questo il sistema che persone come Salha e Asad vogliono veder crollare, e come loro si stima che più di un milione di altra gente si sia ripresa il proprio spazio nelle strade. Molti invocano la fine del sistema settario nella politica, aprendo però al grande interrogativo del “cosa ci sarà dopo?”. Una transizione verso un cambiamento così radicale porterebbe alla rottura dei già fragili equilibri politici e sociali del Libano. Allo stesso tempo, continuare nella direzione attuale, manterrebbe il paese ostaggio delle tesse dinamiche che lo hanno caratterizzato per decenni. Dopo sei giorni di manifestazioni, mentre scende l’adrenalina (ma non l’euforia), i vari esponenti della società civile iniziano dialoghi nella piazza per tentare di organizzare un movimento che possa sviluppare delle istanze concrete da presentare in opposizione alle riforme proposte dal primo ministro Saad Hariri. Tali riforme non sono risultate credibili all’opinione pubblica, irremovibile sulla richiesta delle dimissioni totali del governo. Viene infatti ripudiata ogni tipo di strumentalizzazione o ingerenza politica con l’intenzione di creare una nuova realtà che possa interfacciarsi con il potere in modo nuovo, in taglio netto con il passato.
È questa la speranza che si agita sotto le centinaia di migliaia di bandiere libanesi sventolate da persone profondamente diverse che forse si trovano per la prima volta tutte dallo stesso lato. Ciononostante, il governo non sembra dare segni di cedimento, con alcuni dei principali partiti di governo (Hezbollah, Amal, Free PatrioticMovement) dichiaratisi contrari alle dimissioni e intenzionati a rimanere al comando, tentando la carta delle riforme. Altri ancora hanno tentato di guadagnarsi il favore della folla dichiarandosi favorevoli alle proteste e cercando di screditare gli avversari politici, non riuscendo però ad ingannare chi è nelle strade a manifestare. Al momento, alle orecchie della piazza la voce della politica è screditata, la sfiducia nelle autorità è massima. Chi protesta sa che non saranno le parole a risolvere la crisi economica o le disastrate condizioni delle infrastrutture e degli impianti elettrici ed idrici, né tantomeno le profonde ineguaglianze sociali esasperate da anni di politiche speculative e di privatizzazione. “Nessun cartello è abbastanza grande per elencare tutti i motivi per cui sono qui”. La scritta su un cartone che ondeggia tra la folla parla chiaro: il Libano è stanco del sistema, e questa volta sembra davvero intenzionato a combatterlo.
23 ottobre 2019