Profumo di Oscar per “Judy”, biopic sul mito della Garland

Presentato alla Festa del cinema di Roma nell’ottobre scorso, il film ha vinto due premi Grammy. Nelle sale dal 30 gennaio si prepara alle statuette che saranno assegnate il 9 febbraio

Frances Ethel Gumm: un nome difficile da ricordare, e forse anche un po’ostico. Detto così, crea davvero poca empatia. Così Gumm diventa Judy Garland, destinata a essere un nome importante nel firmamento dello spettacolo americano. Sembra quasi una predestinata: nasce infatti il 10 giugno 1922 a Grand Rapids, una cittadina affacciata sul Mississipi, nella quale il padre gestisce l’unico cinema–teatro esistente. Proprio in questi due settori la piccola Judy si metterà in evidenza. Negli anni Trenta la nascita e il rapido sviluppo del sonoro la inducono ad accostarsi al cinema, dove ha modo di far andare d’accordo i due ambiti.

Il racconto della sua crescita professionale e artistica è al centro di questo “Judy”, il film realizzato come omaggio ad un nome importante e fin troppo presto dimenticato. Il film, presentato alla Festa del cinema di Roma nell’ottobre scorso, ha vinto due premi Grammy della stampa estera accreditata ad Hollywood, probabile trampolino di lancio per la volata verso i Premi Oscar che saranno assegnati nella notte italiana tra il 9 e il 10 febbraio al Dolby Theatre della celebre località californiana. Con studiato tempismo, il film è uscito nelle sale il 30 gennaio e si prepara alle statuette che valgono una carriera.

È interessante notare che il progetto del film “Judy” nasce inizialmente dal teatro, dal dramma “End of the Raimbow” di Peter Quilter. Il testo coglie la diva nel 1968, quando lei, ormai quasi cinquantenne, non ha più il grande seguito di una volta. Ora è una donna segnata da fragilità e da tormenti sentimentali, preoccupata anche per la custodia dei suoi due figli. In uno scenario di dubbi e incertezze, la Garland accetta la proposta di uno show live a Londra. I frequenti stati di ansia sembrano dileguarsi quando Judy esce sul palcoscenico e intona le sue canzoni, ricambiata da applausi fragorosi. Qui, nella narrazione, tornano i ricordi dei grandi successi musicali e cinematografici, dal “Mago di Oz” di Vincente Minnelli (1939) a “È nata una stella” (1954) di George Cukor. La Garland vive anni altalenanti, attraversando cinque matrimoni, segnati da insicurezza e depressioni ricorrenti, cui si aggiungono eccessi di alcolici e farmaci.

Come molti altri titoli dedicati a ricostruire vite e opere di famosi personaggi, anche “Judy” non sfugge alla regola del racconto in chiaroscuro, con tutti i rischi connessi a un nome fin troppo noto e ingombrante della storia del cinema. Poteva esserci il rischio di ripetere situazioni fin troppo già sentite, e quindi di cadere in banali stereotipi. Ad evitare questo pericolo, interviene Renée Zellweger, che offre a Judy Garland un ritratto di sofferta e malinconica bellezza. C’è tra le due attrici una paradossale e inattesa complicità. Premiata da titoli di bel richiamo al botteghino – con “Ritorno a Cold Mountain” vince l’Oscar 2003 come migliore attrice non protagonista, ma ci sono anche “Il diario di Bridget Jones”, 2001, e “Chicago” (2002) –, Zellweger ha faticato non poco a tenersi nel piano nobile del cinema hollyoodiano. E ora questo biopic, dal tono asciutto, realistico, potrebbe rappresentare per lei un importante rilancio. Prodotto ben fatto, godibile, sguardo sulla complessa vita di una donna di ieri da parte di una donna di oggi.

3 febbraio 2020