Privacy e internet, cosa sanno di noi i giganti della Rete?
Sorice (Luiss): «Hanno la capacità di mettere a sistema i nostri dati. È molto difficile “normare” un sistema così complesso, che si basa sulla necessità dell’apertura». I rischi di tecnologie «spesso invasive»
«Se immaginassimo un modello di sviluppo diverso da quello attuale, potremmo persino riconquistare un po’ di privacy perché le esigenze di profilazione totale verrebbero a diventare meno centrali». È il pensiero di Michele Sorice, ordinario di innovazione democratica e di political sociology alla Luiss “Guido Carli”, dove dirige il Centre for Media and Democratic Innovations “Massimo Baldini”.
Con il caso Facebook-Cambridge Analytica, è stato posto all’attenzione del mondo il problema della tutela della privacy sui social network e la difficoltà di garantirla. Perché si è dovuto aspettare tanto?
Quando si pensano norme e regole su un oggetto in continua trasformazione come internet, è inevitabile che le regole siano sempre in ritardo; esse fotografano una situazione che spesso è già cambiata nel momento in cui tali regole diventano applicabili. A questo si dovrebbe aggiungere anche che è molto difficile “normare” un sistema così complesso, che si basa sulla necessità dell’apertura e che è – anche ideologicamente – organizzato per connettere reti; e inoltre, che è difficile stabilire regole in uno “spazio” in cui operano principalmente grandi gruppi economici, che spesso hanno fatturati più elevato dei bilanci di interi Stati. C’è poi una dimensione critica e un po’ apocalittica, sebbene non priva di interesse: alcuni casi sono emersi ora perché conveniva farli emergere ora. Tutta la discussione su Cambridge Analytica, per ora, ha reso più complessa l’attività di ricerca sui social media e ha introdotto regole che di fatto nasconderebbero di più di quello che lasciano vedere.
Cosa differenzia gli Stati Uniti dall’Europa nella tutela della privacy su internet?
L’Europa ha una posizione che – in linea generale – è più consumer oriented di quanto non lo sia quella statunitense, tradizionalmente più sensibile ai bisogni delle imprese. Al tempo stesso, però, c’è da sottolineare che negli Usa si sono sviluppati molti movimenti di opinione di cittadini ed è più facile agire “per contrasto” anche attraverso la class action.
L’utilizzo dei dati personali da parte delle Big Tech è davvero fuori controllo? E gli utenti hanno una responsabilità nell’accettare senza riserve servizi che solo all’apparenza sono gratuiti?
Non so se sia fuori controllo. Sicuramente i grandi colossi della rete detengono un potere di conoscenza, nonché le competenze per mettere a sistema i nostri dati, inimmaginabile fino a pochi decenni fa; molto superiore persino alle “schedature” effettuate dai servizi segreti dei regimi totalitari negli anni Cinquanta e Sessanta. Il punto di snodo, in effetti, non è solo l’accesso alle informazioni ma anche la capacità di “operazionalizzare” i dati, di costruire modelli predittivi o semplicemente analitici. Certamente gli utenti alcune responsabilità le hanno: non tanto nell’accettare servizi apparentemente gratuiti quanto nel riversare in “depositi” di fatto pubblici qualunque informazione su loro stessi. Noi non ci limitiamo a fornire informazioni sulle nostre posizioni politiche, che in fondo potrebbero pure essere in parte pubbliche, o su che tipo di pizza ci piace: noi forniamo dati che di fatto ci auto-profilano. E molto spesso accettiamo modalità di standardizzazione, dai nostri curricula vitae alle regole di ingaggio comunicativo. Che questo sia un pericolo o meno è tema da analizzare e discutere; ma certo una riflessione dovrebbero provocarla.
Quali sono le fonti principali di guadagno di social e motori di ricerca, se non la “personalizzazione” degli annunci pubblicitari grazie alle informazioni sugli utenti in loro possesso?
Il tradizionale broadcasting televisivo “vendeva” – e ancora “vende” – il suo pubblico agli inserzionisti; i social vendono profili. In altri termini, sì la personalizzazione pubblicitaria è un importante veicolo per creare valore economico. Ci sono altri modelli di business ma si basano su sottoscrizioni o abbonamenti, e ovviamente sono meno “appealing”.
È di questi giorni l’alleanza di Apple con Goldman Sachs per lanciare una carta di credito. Amazon mette il braccialetto elettronico ai dipendenti e conosce tutte le nostre preferenze d’acquisto, Facebook anche gli orientamenti sessuali e politici, la robotica e l’intelligenza artificiale offrono un contributo importante (ad esempio nel campo della salute) ma mettono in crisi il mercato del lavoro. Che futuro dobbiamo aspettarci?
Difficile da prevedere. Io non ho mai amato i catastrofismi: non scommetterei mai sul fatto che la tecnologia possa cancellare l’elemento umano. Al tempo stesso, però, non sono neanche un iper-ottimista e non mi nascondo i rischi provenienti da tecnologie spesso invasive e pervasive. Direi però che qui abbiamo fenomeni diversi: che Amazon conosca tutti i miei gusti in termini di consumo mi spaventa molto meno del braccialetto elettronico per “ottimizzare” il lavoro dei dipendenti e di fatto sfruttarli; che Facebook conosca i miei orientamenti politici mi spaventa molto meno dei giovani costretti a lavorare nelle logiche delle piattaforme, organizzati da un algoritmo e senza diritti sindacali. Le persone ridotte a merce sono una prospettiva molto più inquietante del robot che mi somministra un farmaco. Insomma, il futuro non è ancora scritto, non lo è mai e dipende – almeno un po’ – da tutti noi. Però, diciamo che le tendenze del neo-liberismo mi spaventano molto di più dell’innovazione tecnologica o della perdita di un po’ di privacy.
25 maggio 2018