«Penny Wirton», un gioiello per ragazzi

Con il racconto di Silvio D’Arzo si aprono gli appuntamenti con la rubrica libri curata dallo scrittore Eraldo Affinati: «Se dovessi consigliare un libro da leggere agli adolescenti di nuovo sui banchi di scuola»

Se dovessi consigliare un libro da leggere agli adolescenti di nuovo sui banchi di scuola, non esiterei a spingerli verso Penny Wirton e sua madre di Silvio D’Arzo, un grande classico della letteratura italiana nel ’900, ristampato di recente per la cura di Andrea Casoli da un piccolo editore milanese, Greco e Greco (pp.162, 11 euro). Si tratta di un gioiello purtroppo ancora poco noto, composto nel 1948, al termine di una travagliata stesura, quattro anni prima della morte del giovane autore. È la storia di un ragazzo vestito di giallo il quale, agli inizi del ’700, nell’immaginaria contea di Pictown, non conobbe mai suo padre, per questo lo mitizza finché non scopre una verità che mai avrebbe voluto sapere, allora scappa dal paese natale, litiga con la madre, vive cento avventure prima del trionfale ritorno a casa, dopo aver contribuito a ristabilire la giustizia sociale. Silvio D’Arzo si chiamava in realtà Ezio Comparoni e scomparve nel 1952 a soli trentadue anni.

Il suo nome è legato a Casa d’altri: racconto definito «perfetto» da Eugenio Montale. Era innamorato della letteratura inglese e americana. Stevenson rappresentò per lui lo schermo dove proiettare ogni sogno di gloria. Nel piccolo Penny si sente lontano un miglio la presenza di Jim Hawkins, il quattordicenne protagonista dell’Isola del tesoro, come se questo indimenticabile personaggio tornasse a rivivere nelle pagine dello scrittore italiano. Ciò che conta nel romanzo, considerato non a torto da Giuseppe Pontremoli «il più bel libro per ragazzi italiano dopo Pinocchio», è lo stile, denso di echi e assonanze, lucidissimo e sempre liricamente sostenuto, sia nel tessuto narrativo, sia nelle descrizioni paesaggistiche. Ecco un semplice esempio: «C’era su in cielo una luna anche più grande di un secchio, tutta quanta dorata, come una moneta da un milione di pfennig: e le querce gettavano sul Crocicchio ombre lunghe e contorte che fermavano il cuore; e siccome proprio allora s’era messo a spirare il venticello notturno, si sentiva fra le foglie un fruscio, un mormorio, un parlottio come d’anime in pena, e anche le acque del ruscello pareva che a tratti parlassero, come se avessero riconosciuto Penny e adesso si sussurrassero: “È qua?”».

Se pensiamo agli anni in cui venne composto il racconto, l’infuocato secondo dopoguerra, fra documenti bellici e cronache giornalistiche, un’opera come questa sembra caduta dal cielo: felicemente aliena, distante da qualsiasi spirito del tempo, risolta in una piena libertà inventiva. Ma in fondo oggi Penny Wirton e sua madre è un testo ancora più prezioso di ieri: illustrando con fantastica potenza espressiva le eterne peripezie dell’orfano alla ricerca della propria identità, ricorda a tutti noi la sostanza umana dell’unica letteratura davvero possibile: quella che non rinuncia all’ambizione più alta ed è in grado di scommettere sempre sulla vita e sulla morte.

16 settembre 2014