Pone l’accento sulla condizione dei condannati costretti anche per lunghi periodi nel braccio della morte in attesa dell’esecuzione la World coalition against the death penalty. L’occasione è la Giornata mondiale contro la pena di morte che si celebra oggi, 10 ottobre. «Che si tratti delle condizioni di isolamento negli Stati Uniti o di carceri sovraffollate in alcuni Paesi africani e asiatici, le condizioni di vita dei condannati a morte sono causa di disumanizzazione, e vanno a discapito della dignità degli individui», si legge sul sito della Coalizione.

Per rispondere a questo appello Acat Italia (Azione dei cristiani per l’abolizione della tortura), che si batte da sempre per l’abolizione della pena di morte insieme alle Acat a livello internazionale, «ha deciso di dedicare l’appello urgente del mese al caso di Ho Duy Hai, un ragazzo vietnamita di appena 30 anni, nel braccio della morte da 10 anni in seguito alla condanna pronunciata nel 2008 e a un processo che presenta varie incongruenze», dichiara il presidente Massimo Corti. «Troppi casi come quello di Ho Duy Hai ci sono ancora nel mondo – continua -, troppe persone sottoposte alla tortura infinita di non sapere quando la condanna verrà effettivamente eseguita, uomini e donne annientati ancor prima di morire. Nostro compito – prosegue – è quello di far conoscere e sensibilizzare il più possibile perché si ponga fine alla barbarie della pena di morte e si giunga a una moratoria universale».

Anche da Amnesty international arriva la richiesta che i prigionieri condannati a morti siano «trattati con umanità e dignità e detenuti in condizioni rispettose delle norme e degli standard internazionali sui diritti umani». L’organizzazione ha lanciato una campagna su cinque Paesi (Bielorussia, Ghana, Giappone, Iran e Malaysia) affinché i rispettivi governi pongano fine alle inumane condizioni detentive dei condannati a morte e assumano iniziative in favore dell’abolizione totale della pena capitale. «A prescindere dal crimine che possa aver commesso, nessuno dovrebbe essere costretto a subire condizioni inumane di detenzione. Invece, in molti casi, i condannati a morte sono tenuti in rigido isolamento, vengono privati delle cure mediche di cui necessitano e vivono nella costante ansia di un’imminente esecuzione», dichiara a nome di Amnesty international Stephen Cockburn. «Il fatto che alcuni governi notifichino l’esecuzione ai prigionieri e ai loro familiari pochi giorni, se non addirittura pochi minuti prima, aggiunge crudeltà alla situazione – aggiunge -. Tutti i governi che ancora mantengono la pena di morte dovrebbero abolirla immediatamente».

Molti i Paesi nei quali le condizioni detentive sono estremamente critiche ma la campagna di quest’anno di Amnesty, spiegano dall’organizzazione, si focalizza quest’anno sui 5 Paesi nei quali la crudeltà del sistema della pena capitale è estrema. In Ghana i condannati a morte spesso non ricevono le cure mediche necessarie per curare malattie o disturbi di lunga durata. In Iran, Mohammad Reza Haddadi, nel braccio della morte da quando aveva 15 anni, ha dovuto subire la tortura di vedersi fissata e poi rinviata l’esecuzione almeno sei volte. Matsumoto Kenji, in Giappone, soffre di delirio a causa del prolungato isolamento in attesa dell’esecuzione. Hoo Yew Wah ha presentato una richiesta di clemenza alle autorità della Malaysia nel 2014 ed è ancora in attesa di una risposta. Ancora, il clima di segretezza che circonda l’uso della pena di morte in Bielorussia fa sì che le esecuzioni non siano note all’opinione pubblica e vengano portate a termine senza alcuna comunicazione ai prigionieri o alle loro famiglie.

Nel 2017 Amnesty ha registrato 993 esecuzioni in 23 Paesi: il 4% in meno rispetto al 2016 e il 39 % in meno rispetto al 2015. La maggior parte ha avuto luogo in Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan ma il dato non tiene conto di migliaia di esecuzioni avvenute in Cina, dove le informazioni restano un segreto di Stato.

10 ottobre 2018