Pandemia: attese, memoria e speranze nostalgia di abbracci

Tutti siamo stati toccati dal virus, parrocchie comprese. Questo è il tempo in cui siamo chiamati a rendere di nuovo ragione della speranza che è in noi

Domenica di inizio primavera. Vorrei unirmi alla sposa del Cantico che dice: «L’inverno è passato, il tempo del canto è tornato» (cfr. Ct 2,11-12). In effetti un anno fa si cantava dai balconi per esorcizzare la paura e con la ferma speranza che tutto sarebbe finito entro Pasqua. Oggi invece non si canta più da tempo e ci ritroviamo ancora con tante incognite, con la fatica di questi mesi, con il numero dei morti, con tante famiglie che, oltre ai loro cari, hanno perso il lavoro e l’equilibrio. Tutti siamo stati toccati dal virus o personalmente, o nella famiglia, o al lavoro. Le restrizioni hanno condizionato fortemente anche le nostre parrocchie, molte delle quali hanno visto i loro sacerdoti in isolamento, ricoverati, e tanti collaboratori che hanno affrontato in prima persona il Covid-19. La nostalgia di abbracci si fa sempre più forte, con il sottile timore che, quando ci sarà permesso di accogliere una mano tesa, avremo forse ancora paura di stringerla troppo.

I discepoli entrati con Gesù a Gerusalemme gli chiedono dove celebreranno la Pasqua (cfr. Mc 14,12). L’esperienza della Settimana Santa dell’anno scorso è già stata una prova grande, non priva di riscoperta di profondità e di momenti intensi vissuti in famiglia. Anche quest’anno ci chiediamo dove la celebreremo (se non dovessimo entrare tutti in chiesa) e come la celebreremo. Il Vangelo di ieri, domenica 21 marzo, presenta Gesù come chicco di grano che muore per produrre frutto (cfr. Gv 12,24). Il suo sguardo vede la croce ma, attraverso essa, la Luce della Vita. Questo è il tempo in cui siamo chiamati a rendere di nuovo ragione della speranza che è in noi. È il tempo di ricordare i nostri cari – come abbiamo fatto il 18 marzo per la giornata in memoria delle vittime del Covid – con la certezza che sono nella Luce della vita. È il tempo di rendere grazie per chi, nella fedeltà e nel nascondimento, continua a operare per la salute e per la salvezza delle persone e per chi – come ha scritto il Papa nella “Patris corde” – trova un modello in Giuseppe: tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza.

È il tempo in cui siamo chiamati non ad attendere il momento in cui tutto finirà – perché non sappiamo quando sarà – ma a vivere in pienezza l’oggi, con tutte le incognite, dando valore alle relazioni, puntando all’essenziale. Cristo è entrato in questa nostra umanità segnata dal male e dalla malattia, arrivando a condividere tutto fino alla morte e alla morte di croce. Con questa umanità è risorto, dando luce e senso alla storia e alla vita. Don Mazzolari, nel ‘42, in piena guerra, scriveva: «Non importa dove celebreremo la Pasqua. Noi sappiamo che la Pasqua è, e che nessuno ce la può togliere, perché il Calvario è rimasto in piedi dappertutto. La nostra Pasqua è il Cristo crocifisso. E la Pasqua Egli la fa lo stesso. Scende sulle piazze, lungo le strade, negli ospedali, nelle prigioni, ovunque è fame, dolore, oppressione, martirio. Ogni lacrima è sua, ogni umiliazione è sua, sua ogni tristezza come ogni agonia… è l’Uomo del dolore, il crocifisso di ogni ora… La nostra Pasqua è il Cristo Risorto».

Molte persone vivranno la Pasqua in ospedale, da pazienti o da operatori; altri saranno in isolamento; altri saranno nelle nostre chiese. E mentre la mano di un infermiere, sotto la tuta protettiva, si accosterà a un malato per porgergli qualcosa, la mano di un sacerdote, con i paramenti a festa, accenderà il cero pasquale. E sarà Pasqua comunque, in corsia come in casa, in chiesa come nel segreto di una stanza. Non importa il dove e il come. Importa che siamo pronti a passare dall’inverno alla primavera, lasciandoci prendere per mano dal Crocifisso risorto. Se Lui è con noi, tutto è già andato bene. (*vescovo ausiliare)

22 marzo 2021