“Ora tocca all’imperfetto”, per Viviani importanti le cose nascoste

Oggi forse soltanto i poeti possono rispondere alle domande capitali riuscendo a non smarrire la concretezza della realtà quotidiana. Inutile affannarsi: non potremo mai sapere tutto

Una volta chiesi ad alcune liceali impegnate a insegnare la nostra lingua agli immigrati di scrivere qualche impressione in merito. Una di loro era rimasta colpita quando un profugo iracheno le aveva detto di non volersi applicare nello studio dell’imperfetto. Chiamato a spiegarne la ragione, il giovane affermò che quel tempo verbale riguardava il passato: una dimensione troppo dolorosa per lui. Meglio concentrarsi sul presente e puntare al futuro mettendosi alle spalle i brutti ricordi. Tuttavia la suddetta rimozione comporta un prezzo da pagare, ma quel che specialmente conta, si tratta di un lusso impossibile da sostenere superata una certa età.

È questa la riflessione da cui parte, con il furore prospettico dei profeti, Cesare Viviani nel suo ultimo importante libro di poesie: “Ora tocca all’imperfetto” (Einaudi, pp. 121, 11 euro). Pagine segnate da un’amputazione spirituale: sono più importanti le cose nascoste rispetto a quelle davanti a noi. «Il segreto che tutti sanno: / dietro ogni cosa che vediamo / ce ne sta una invisibile / che la sostiene. / Dietro questo mondo / ce ne sta uno invisibile / che lo sostiene». Sin dall’inizio tale dimensione interiore appare ineludibile: «Tu giovinezza, punti al miracolo, / al prodigioso, al sovrumano. / Eppure abbiamo percorso ciechi, / ciechissimi l’esistenza: / la città, i conoscenti, i lavori, / la natura, gli amori, / non visti». Chi vorrebbe alleggerirsi del carico suscita nel poeta un sentimento di amara stupefazione: «È sorprendente, inverosimile / cercare la salvezza nei bambini, / andare da loro a cercare protezione, / o nei reperti archeologici, / chiedendo sia agli uni sia agli altri / di liberarci dal tempo».

L’occhio di Cesare Viviani guarda in alto e con piglio risoluto traduce: «Rifiutare Dio / è la pena maggiore, la più pesante condanna, / è viver dannato, / è rifiutare chi ti ha generato, / è pensare che ti sei fatto da solo, / che ti sei dato la vita». Ne deriva un sentimento di caducità che dilata gli orizzonti, senza oscurare la visione: «L’oscillazione delle messi al vento / è tutto lì racchiuso, / la nostra vita / e la passata generazione / e addirittura i secoli, / tutto in quell’oscillazione». C’è come un meccanismo che ogni generazione è chiamata ad azionare nella suprema, perfino commovente, inconsapevolezza: «Per sempre calavano le forze, / la mente s’indeboliva per sempre. / Le forze passavano tutte ai giovani / che non riconoscevano la provenienza».

Oggi forse soltanto i poeti sono in grado di rispondere alle domande capitali riuscendo a non smarrire la concretezza della realtà quotidiana. Ad esempio questa: cosa ne sarà di noi? Ecco la risposta di Viviani: «Per tutti è sonno profondo, non è morte, / diventa rialzo del terreno, / strati su strati, in tempi secolari, / poi diventa una zona edificabile / con una bella vista, / almeno per un po’ di anni». Inutile affannarsi: non potremo mai sapere tutto. «E fossero scolpite le onde / ugualmente non rivelerebbero / il mistero di quel mare / che noi, che non abbiamo studiato, / non sappiamo dove comincia / e dove finisce». Tale è la nostra esistenza, destinata a farsi vento, come il cancelletto che gira avanti e indietro sui cardini: «Dicono: è mancato, è scomparso, / ma no, è diventato tempo, / quel tempo che ci circonda, / ci tocca, ci assilla, / ci seduce, / ci corteggia ogni giorno, / finché non cediamo».

24 febbraio 2020