“Nuovi italiani”, il vicario Reina: «Smettiamola di chiamarli stranieri»
Presentata la ricerca realizzata da Archivo Disarmo. Veronica, 26 anni, figlia di indiani, studentessa di medicina: «Partiamo dai nostri nomi difficili da pronunciare». Il ministro Piantedosi: «Massimo impegno del governo contro discriminazione e razzismo»
«Per i ragazzi che sono nati e cresciuti in Italia vedere riconosciuta la cittadinanza è anche un supporto psicologico. Si sentirebbero cittadini a tutti gli effetti. È un tema che dal punto di vista politico divide, però vorremmo che il confronto lo si facesse ascoltando queste testimonianze. È vero che lo Stato garantisce a tutti, anche a chi non ha la cittadinanza, i diritti fondamentali, ma è anche vero che questo upgrade sarebbe molto interessante proprio perché loro si possano sentire pienamente italiani. Sarebbe un peccato se a loro questo diritto non venisse riconosciuto. Abbiamo grande rispetto del dibattito politico, però riteniamo che in ascolto di queste generazioni si possa fare il passo che molti si attendono». Le parole del vicario Baldo Reina, a margine della presentazione della ricerca “I nuovi italiani nella diocesi di Roma”, ben sintetizzano il pomeriggio di ieri, 5 novembre, nella parrocchia di San Giuseppe Cafasso, a Torpignattara.
Lo studio è stato commissionato dalla diocesi di Roma e curato dall’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo (Iriad). La testimonianza di Veronica Kallarakkal, 26enne studentessa di medicina, nata e formatasi in Italia, con genitori indiani da anni nel nostro Paese, nella sua spontaneità ed emozione è stata uno schiaffo. In poche parole ha trasmesso a rappresentanti del mondo ecclesiale, delle istituzioni locali e del governo, la necessità di un cambiamento. «A chi appartengo? Chi sono? – si è chiesta -. Abbiamo bisogno del nostro spazio per essere noi stessi e per dare tanto a questo Paese. Non diteci chi dobbiamo diventare, quanto siamo italiani e quanto siamo indiani; lasciateci lo spazio per «poter costruire la nostra identità. Partiamo dai nostri nomi e cognomi difficili da pronunciare».
Per il vicario, Veronica ha offerto l’elemento fondamentale: il nome. «L’antidoto è quello delle relazioni – ha affermato -. A partire dal linguaggio, potremmo provare a superare alcune barriere, smettendola di chiamarli stranieri. È già un titolo. Noi siamo le radici che ci portiamo dentro. La Chiesa di Roma c’è. Facciamo tesoro di questa grande ricchezza di popoli, religioni e visioni del mondo, sapendo che ci aiutano a dilatare la nostra intelligenza e il nostro cuore».
La ricerca, presentata da Fabrizio Battistelli e Francesca Farruggia, docenti alla Sapienza e rispettivamente presidente e segretaria generale di Iriad, è il primo frutto della Consulta diocesana delle seconde generazioni ed esplora le dinamiche identitarie e relazionali dei giovani di seconda generazione a Roma, evidenziando le tensioni tra le aspettative familiari, le relazioni con i pari e il contesto scolastico. È basata su 119 interviste e sono stati coinvolti 16 testimoni privilegiati (sacerdoti, rappresentanti associativi, giovani di seconda generazione), 6 genitori e 96 giovani, la maggior parte tra i 18 e i 24 anni, in 14 focus group. Dodici le comunità straniere rappresentate nei focus group, con la Nigeria a guidare la classifica (18 giovani), seguita da Filippine (11), Ucraina (9), Repubblica democratica del Congo (8) e Polonia (7).
Nonostante la lunga residenza, in famiglia si predilige ancora la lingua d’origine (74,4% per i padri, 78,2% per le madri) il che porta i ragazzi a supportare i genitori per gli adempimenti burocratici o per il rapporto con la scuola. Con gli amici, invece, il 65,4% dei giovani utilizza prevalentemente l’italiano. «Vorremmo che questo fosse l’inizio di un nuovo percorso – ha detto il vescovo ausiliare Benoni Ambarus, presidente della Commissione regionale per le migrazioni -. Un punto di partenza per condividere questa realtà bella e ricca dei nuovi italiani».
Un invito al discernimento, «facendo tesoro della riflessione dei nuovi italiani nella diocesi di Roma», è arrivato da padre Giulio Albanese, direttore dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi, che ha moderato l’incontro. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha assicurato «il massimo impegno del governo nel combattere ogni forma di discriminazione e di razzismo» perché «il pregiudizio è sempre negativo. È importante – ha aggiunto – supportare il processo di integrazione di questi giovani e integrare significa costruire una società dove tutte le persone, indipendentemente dall’origine, riescano a partecipare alla vita sociale ed economica e ad avere le stesse opportunità».
Proprio parlando di integrazione, il vicepresidente della Conferenza episcopale italiana Gianpiero Palmieri ha rimarcato che «il ruolo della Chiesa romana nei processi di integrazione è quello che dalla Chiesa ci si aspetta». Ha quindi ricordato i 4 verbi cari a Papa Francesco in tema di immigrazione: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. «È importante fare alleanza con questi giovani e adulti, un’alleanza rispettosa per il loro bene e per quello del nostro Paese – ha affermato -. Solo così si potranno concretizzare i quattro verbi».
L’auspicio dell’assessore alle Politiche sociali di Roma Capitale Barbara Funari è che «i ragazzi possano avere il diritto di cittadinanza che meritano anche attraverso una legge. La presenza di tanti giovani che scelgono di vivere qui è una buona notizia, difronte a un inverno demografico di cui non ci rendiamo conto». L’integrazione è una buona prassi che la parrocchia di San Giuseppe Cafasso porta avanti da tempo, ha ricordato il parroco don Gaetano Saracino, il quale ha rimarcato che nel quadrante est «si fanno alleanze e si sta costruendo la Roma dei prossimi 20 anni».
6 novembre 2024