“Nuoto libero”: il talento di Otsuka

La malattia materna e il sentimento del tempo che trascorre ineluttabile, al centro del breve romanzo tradotto da Pareschi. Nello stile tassonomico della scrittrice, una resistenza priva di illusioni

Veder svanire chi ci ha messo al mondo fa tremare il terreno sotto i piedi. Non proprio Alzheimer, ma qualcosa che gli assomiglia: atrofia del lobo frontale. «Ce l’aveva anche Ravel», commenta il medico, ex prodigio del violino. La figlia aveva già notato che da qualche tempo la madre dimenticava di pulire gli occhiali: «Le lenti erano tutte imbrattate di impronte. La montatura era piegata e storta. Come faceva, le hai chiesto, a vederci con quegli affari?». Poi tutto prese una brutta piega. Nuoto libero (Bollati Boringhieri, pp. 140, traduzione di Silvia Pareschi, 16 euro), il breve romanzo molto incisivo in cui Julie Otsuka, nata nel 1962 a Palo Alto, in California, da genitori giapponesi, racconta questa triste vicenda, inizia tuttavia, come si evince dal titolo, in una grande piscina sotterranea dove la protagonista, insieme a tanti altri, percorre tranquilla le sue quotidiane vasche, finché un giorno non appare una crepa sul fondo, sotto il canale di scolo, all’estremità della corsia quattro, che getta tutti nell’inquietudine.

A legare la prima parte del racconto, fondata sulla descrizione dei natanti, ognuno spinto dalla sua motivazione, a quella successiva, al cui centro resta la malattia materna, è il sentimento del tempo che trascorre ineluttabile sulle nostre esistenze, in una drammatica scansione alla quale Julie Otsuka sembra opporre una resistenza priva di illusioni, caratterizzata da uno stile fortemente tassonomico che finisce col rappresentare il fascino del testo. Leggendo mi sono tornati in mente i quadri di Mark Tobey, il grande pittore americano, profondamente influenzato dalla cultura orientale.

Seguo da sempre questa scrittrice che abbiamo imparato a conoscere con Venivamo tutte per mare, la storia di molte ragazze giapponesi le quali, chiamate negli Stati Uniti agli albori del XX secolo dai loro futuri mariti, affrontarono una lunga traversata oceanica per raggiungerli, senza averli mai visti, se non in fotografia. Il suo esordio però risale al 2003: Quando l’imperatore era un dio, ispirato alle tragiche deportazioni cui andarono incontro, nella seconda guerra mondiale, i giapponesi che abitavano negli States dopo il bombardamento di Pearl Harbor. Considerati nemici interni, vennero rinchiusi in campi di concentramento nei deserti dello Utah dove restarono sino alla fine del conflitto. Mentre in Venivamo tutte per mare a colpire il lettore è la potenza lirica del riferimento (un “noi corale” di grande efficacia), in Quando l’imperatore era un dio commuove lo scarto lancinante fra la grettezza e la miopia dei proclami politici contrapposte alla vita quotidiana delle persone. Nuoto libero conferma il talento di Julie Otsuka, specie nel ricordo finale della madre smarrita che guarda la foto del libro appena stampato dalla figlia, il nome, la targhetta: «E ogni volta, quando arriva al tuo viso, sembra sul punto di parlare».

18 aprile 2023